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Stephen Hawking, lo scienziato che sapeva divertirsi

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Siamo noi a creare la storia con la nostra osservazione, e non la storia a creare noi”. Con questa frase Stephen Hawking – morto oggi all’età di 76 anni – dimostra ancora una volta l’umiltà del genio.

Con un Quoziente Intellettivo di 160-165 (il punteggio medio di noi comuni mortali è 100) – per inciso, lo stesso di Einstein e Newton – ha dato il suo contributo a quasi tutte le teorie ancora aperte e dibattute della fisica moderna: il multiverso, la formazione ed evoluzione galattica e l’inflazione cosmica.

E pensare che, se fosse stato per suo padre, doveva fare il medico. Bene avrebbe fatto ai suoi pazienti, ma siamo certi che il contributo scientifico di Hawking abbia un peso davvero fondamentale.

Affascinato dalla matematica, sceglie come mediazione con il padre, la fisica. A 21 anni scopre la malattia che lentamente lo porterà alla paralisi totale. Eppure malgrado i due anni di depressione che fecero seguito alla scoperta, si dedica con rinnovata energia alla ricerca, senza mai incedere al vittimismo.

Nel 2012, i laboratori della Stanford University hanno appositamente approntato uno scanner cerebrale per tradurre in parole la sua attività neurologica. Hawking non ha mai voluto avvalersene – diceva che finché riusciva a operare una scelta motoria consapevole con gli occhi, la preferiva – ma ha sicuramente contribuito allo sviluppo di una tecnologia di cui molti altri potranno beneficiare.

Senza imperfezione, voi e io non esisteremmo

Umile malgrado la fama, diceva: “Senza imperfezione, voi e io non esisteremmo”.

Cosmologo, matematico e astrofisico, fra i più noti al mondo, era conosciuto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri, l’origine dell’universo e la cosmologia quantistica.

Titolare per 30 anni della cattedra lucasiana di Matematica all’Università di Cambridge, è stato – fino alla morte – direttore del Dipartimento di Matematica applicata e Fisica teorica della medesima università.

Nel 1971 formulò il primo dei molti teoremi che forniscono circostanze sufficienti delle singolarità gravitazionali nello spazio-tempo. Si tratta di un teorema in grado di dimostrare come le singolarità siano una caratteristica generale, e non occasionale, della relatività generale einsteiniana, provando che l’universo deve aver avuto origine da un Big Bang caldo e convalidando il modello standard della cosmologia (denominato stato di Hartle-Hawking).

Centrale nelle sue ricerche è sempre stata la fisica dei buchi neri: l’enigma, per antonomasia, della cosmologia moderna.

Insieme a Carter, Israel e Robinson, ha fornito la prova matematica del teorema dell’essenzialità (no-hair theorem) di John Archibald Wheeler, secondo cui i buchi neri sono caratterizzati soltanto da tre proprietà: la massa, la carica elettrica e il momento angolare.

A dimostrazione che talvolta anche i geni sbagliano, nell’autunno del 1973, Hawking si fece sorprendere dall’allora ventenne studente Jacob Bekenstein (poi professore della Hebrew University di Gerusalemme) che, nelle sue formulazioni, teorizzava come i buchi neri potessero emettere energia. Tra i due si instaurò una sfida, con Hawking intenzionato a confutare la teoria, ma poi costretto a riconoscerne la validità. Oggi, quella formulazione porta il nome condiviso di radiazione di Bekenstein-Hawking (si veda il testo di Bekenstein “Buchi neri, comunicazione, energia”) e rappresenta un punto di arrivo nella formulazione dell’entropia del buco nero.

Altra disputa conclusa con un’ammissione d’errore, da parte di Hawking, è stata quella con Peter Higgs. Stephen aveva scommesso – soldi – che il bosone non sarebbe mai stato trovato. I due più volte arrivarono ai ferri corti, tanto che Higgs lamentava come “la celebrità di Hawking gli permetta una credibilità immediata che gli altri non hanno”. Il Nobel a Higgs, nel 2013, valse più della scommessa.

Il premio mai arrivato

Nobel che a Hawking è sempre stato negato. Scientificamente, perché gran parte delle sue teorie non hanno ancora una validazione sperimentale – e forse mai l’avranno, data l’impossibilità di riprodurre in laboratorio le condizioni fisiche di un buco nero o del Big Bang – moralmente, perché molte delle sue posizioni ideologiche e politiche lo hanno reso un personaggio “scomodo”: si è dichiarato contro la politica israeliana nella Striscia di Gaza e contro la guerra in Siria; ha più volte affermato il diritto all’eutanasia e al suicidio assistito.

Vanta comunque un Albert Einstein Award, il Wolf Prize, la Copley Medal e il Fundamental Physics Prize, una consulenza scientifica alla Casa Bianca, durante l’amministrazione Clinton, e la Medaglia presidenziale della libertà – la più alta onorificenza degli Stati Uniti d’America – consegnatagli da Obama.

Hawing ha tracciato orizzonti oltre le possibilità visive dell’occhio umano e sperimentali della fisica: “Se una teoria chiamata principio olografico risultasse corretta, noi e il nostro mondo quadridimensionale potremmo essere ombre sul contorno di un più vasto spazio-tempo pentadimensionale” (si consiglia, al riguardo, la lettura del testo di Davide Fiscaletti, “Il quadro olografico”).

La stessa teoria del multiverso (multi-universo) – ipotesi che prevede l’esistenza di universi coesistenti al di fuori del nostro spazio-tempo, altrimenti detti “dimensioni parallele” – traccia affascinanti alternative alla realtà così come la conosciamo. Se davvero il Big Bang di 13,7 miliardi di anni fa non fosse stato l’inizio assoluto del cosmo, allora l’universo o gli universi sarebbero eterni, autocreati e autoriproducenti e, di conseguenza, la legge delle probabilità da sola spiegherebbe l’apparente perfezione del vivente, in senso evoluzionistico.

L’ordine, in passato attribuito al Creatore, oggi può apparire anche solo il frutto della legge dei grandi numeri. Attorno a questa teoria si è creata una battaglia scientifica – forse irrilevante per la scienza, ma determinante sul piano religioso-esistenziale – che vede su fronti avversi Hawking, Weinberg, Smolin – da un lato – e Penrose, Gross e Davies, dall’altro (si vedano in proposito Gross, “L’universo affascinante”, e Davies, “Un solo universo o infiniti universi?”).

Intellettuale lucido e coraggioso, Hawking ha più volte affermato la necessità per l’umanità di creare colonie spaziali; ha manifestato le sue preoccupazioni sulla possibilità che l’uomo possa autoeliminarsi – tramite la distruzione dell’ambiente, la diffusione di virus geneticamente modificati, la costruzione di un’intelligenza artificiale capace di ribellarsi o una guerra nucleare – ma ha anche preannunciato il pericolo derivante dal voler trovare a tutti i costi forme di vita intelligente extraterrestre, perché, se queste davvero esistessero e fossero in grado di arrivare fino a noi, significherebbe che sono anche in possesso di una tecnologia così avanzata da distruggerci.

Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza

“Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”, era il suo motto. E proprio per sconfiggere questa illusione, si è alacremente dedicato alla divulgazione scientifica: la sua opera più conosciuta – con 9 milioni di copie vendute in tutto il mondo – è “Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo”.

Malgrado la malattia e la sua serietà di scienziato, Hawking amava divertirsi: “La vita sarebbe tragica se non fosse divertente”. Nel 1994 ha prestato la sua voce sintetizzata al brano “Keep Talking”, nel disco “The Division Bell” dei Pink Floyd; è apparso di persona nell’episodio “The next generation” della sesta stagione di “Star Trek”, esibendosi in una partita a poker con Einstein, Newton e il comandante Data; ha preso parte a 5 episodi della serie “The Big Bang Theory” ed è apparso come professore di Brian ne “I Griffin”, nella puntata “Brian goes back to college”.

Amava ripetere: “L’intelligenza è la capacità di adattarsi al cambiamento”.