Avete presente quelle strane smorfie e vocine che facciamo quando cerchiamo di comunicare con un neonato? Ecco, per la maggior parte sono inutili o fuorvianti. Lui non può capire il senso delle parole che gli diciamo, ma coglie istintivamente una serie di segnali che fanno parte della comunicazione verbale e non verbale nel bambino.
Per esempio, coglie il tono della voce, il suo volume, la velocità con la quale pronunciamo le parole, le espressioni facciali che le accompagnano. Sorridergli forzatamente è controproducente. La spontaneità, la voce dolce, lenta e ritmata, il sorriso rassicurante sono gli stimoli di cui ha bisogno. Per cui, anche nel vezzeggiare un neonato, ci vuole criterio e consapevolezza. Nulla cade nel vuoto. Tutto è stimolo.
La comunicazione e il linguaggio dei bambini passano per un codice che nulla ha a che fare con le priorità degli adulti: l’adulto vuole esprimersi, il bambino vuole essere ascoltato. Proprio perché totalmente differente, nelle modalità come nella finalità, il linguaggio non verbale dei neonati va appreso e compreso. E sarebbe utile, specialmente per i neo-genitori, approfondire con letture specialistiche come dare il giusto messaggio – un messaggio confortevole, sincero e rassicurante – ai propri figli o figlie. Consigliamo al riguardo il saggio Comprendere i bambini: sviluppo ed educazione nei primi tre anni di vita della psichiatra e pedagogista montessoriana Silvana Quattrocchi Montanaro.
Didattica della comunicazione non verbale
Esiste una vera e propria didattica della comunicazione non verbale: tecniche per valorizzare il corpo come strumento consapevole di espressione emotiva, giochi di ruolo e mimici, giochi o terapie teatrali (come lo psicodramma), per aiutare i genitori a gestire movimenti e fisionomia. Ma anche corsi pedagogici per spiegare agli adulti come rispettare le necessità fisiche del neonato: disponibilità di spazio da esplorare, illuminazione e temperatura degli ambienti, acustica, analisi delle dinamiche di contatto fisico.
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È particolarmente nell’ambito della comunicazione non verbale nelle scuole per l’infanzia che una didattica in tal senso diventa fondamentale: perché il bambino, ancora molto piccolo e privo di padronanza del linguaggio, si trova ad avere a che fare con persone estranee, al di fuori del più ristretto nucleo familiare. Si sente spaesato, in balia delle situazioni e va quindi messo nella condizione di esprimersi senza timore, con disinvoltura anziché con inibizione.
Comunichiamo giocando
I giochi di comunicazione non verbale sono il miglior metodo di adattamento: il gioco dello specchio, basato sull’imitazione, o delle statue per il controllo del movimento; indovinare le parole osservando i gesti; i giochi linguistici come le filastrocche, che uniscono all’apprendimento linguistico la musica e la mnemonica (ricordare genera confidenza).
I primi tre anni di vita – come suggeriscono tutti i neuropsichiatri infantili – sono fondamentali perché contribuiscono alla formazione dei circuiti neuronali propedeutici allo sviluppo dell’essere umano e alcune carenze di questa età lasciano tracce che non sempre possono essere riparate.
Il coordinamento nei movimenti e l’espressione attraverso il linguaggio facilitano la possibilità di costruire rapporti con gli altri e aumentano la stima di sé. Avere il controllo, seppur soltanto a livello comunicativo e motorio, del circostante contribuisce a una visione positiva del mondo.
I genitori e gli educatori sono chiamati a confrontarsi non con un essere passivo, ma con un bambino-persona, che è parte attiva e fondamentale di un processo di umanizzazione, le cui potenzialità si esprimono grazie all’aiuto dell’ambiente circostante. Contrariamente ai luoghi comuni di un’educazione restrittiva e ipervigilante, bisogna lasciare ai bambini la libertà di crescere e imparare; e l’apprendimento deve essere il più possibile spontaneo.
Per questo il gioco rappresenta sempre un ottimo stimolo alla crescita. Soprattutto in ambito linguistico, i primi passi dalla comunicazione non verbale a quella verbale, vengono agevolati dai giochi per immagini, suoni, numeri o singole lettere animate dell’alfabeto. È fondamentale dare all’apprendimento un risvolto allegro, non gravoso né giudicante. Come affermava lo psicologo e pedagogista svizzero Jean Piaget, “i bambini non giocano per imparare, ma apprendono giocando”.
Soprattutto nella fase preverbale è importante mantenere il contatto di sguardo: il bambino deve poter incontrare i vostri occhi, perché nel farlo trova sostegno e approvazione. Cercate di limitare i suoni di disturbo con un ambiente acusticamente protetto; ripetete più volte una stessa sillaba o canzone; stimolate il loro apparato fono-acustico-motorio spingendoli a imitare diversi suoni, come pernacchie, baci, smorfie, respiri, soffi e così via.
Una risata sincera è sempre il suono più gradito, insieme alle canzoni.
Foto di TerriC da Pixabay