Intervista di Johanna Hofmann a Ignazio Licata
La fisica quantistica ha avuto un singolare destino tra tutte le teorie scientifiche: pur essendo di importanza fondamentale per la comprensione della Natura, spesso i suoi sottili problemi concettuali hanno scoraggiato sia l’umanista, che preferisce leggerne versioni poco corrette dalla dubbia serietà, sia lo scienziato, che nella maggior parte dei casi si limita a usarne l’efficiente apparato matematico nella soluzione di problemi specifici, accettandone le “stranezze” come un dato di fatto al quale opporre un atteggiamento pragmatico.
È opinione comune che sia stata la relatività a trasformare profondamente la fisica del nostro secolo, ma è stata la Sfinge quantistica a proporre gli enigmi più fecondi per la nostra concezione della realtà. Questa teoria non ha soltanto posto le basi per indagare la microfisica, ma ha rimesso in discussione la natura dello spazio, del tempo e della materia, la relazione tra osservatore e osservato, il caso e la necessità.
D: Cerchiamo di fare un’intervista comprensibile a tutti! Mi dica in breve cos’è la non-località…
R: Accetto la sfida, se è vero che nessun fisico pensa con formule, come scrisse Einstein! Una serie formidabile di esperimenti, tra i quali quello ormai classico di Alain Aspect e collaboratori nel 1982, hanno dimostrato che le particelle quantistiche che sono in stato di singoletto, ossia connesse dalla stessa funzione d’onda, una volta separate, in particolari condizioni (basso rumore termico) restano in contatto e si scambiano segnali istantanei. […] È possibile anche ampliare lo stesso modello di spazio-tempo e non pensare alla non-località come a un viaggio di qualcosa, ma piuttosto come a un legame che si manifesta tra strutture nello spazio-tempo ampliato, e che noi vediamo come una sorta di trasmissione.
D: È qualcosa che ha a che fare con il Quantum Computing?
R: In tanti anni di fisica teorica ho imparato a non fare la Cassandra, ma non credo molto nei computer quantistici. I processi quantistici, come la non-località, la sovrapposizione e altro, richiedono un silenzio particolare che serve a preservare le caratteristiche della funzione d’onda (coerenza). È un velo sottile che si lacera facilmente ed è per questo che il mondo ci appare locale. Gli sperimentali sono però creature diaboliche, e da loro c’è da aspettarsi di tutto. La sfida è quella di estendere le condizioni di coerenza sull’ordine di domini ottici sempre più grandi. Attualmente non vedo nulla di convincente, però è sempre un piacere cambiare idea.
D: Questi esperimenti di cui parla rappresentano il nuovo?
R: Gli esperimenti sulla non-località continuano, e sono sempre più complessi e interessanti, ma ci sono altre cose che mi fanno parlare di fatti “nuovi”. Nel 1989, se ricordate, ci fu l’affare della fusione fredda. A parte il gioco delle aspettative energetiche e le polemiche che ne seguirono, il fenomeno mostrava effettivamente delle caratteristiche nuove e interessanti che riguardano la nostra conoscenza della struttura della materia. Rimasi molto colpito dai brillanti lavori del compianto Giuliano Preparata e del suo gruppo – tra i quali voglio ricordare Emilio Del Giudice – su una possibile descrizione dei fenomeni di cold fusion basata sulla considerazione di termini non-lineari nel cuore della tradizionale elettrodinamica quantistica, i cosiddetti domini di coerenza. In questo modo Preparata aveva dato contributi fondamentali al problema del confinamento dei quark, e si riprometteva di utilizzare questi metodi nello studio di altri fenomeni. […] Mi resi conto che questo tipo di processi cooperativi legati ai domini di coerenza sono essenzialmente il modo in cui nella teoria quantistica dei campi si manifesta la non-località. È questa l’idea davvero nuova del mio libro. La non-località ci impone di modificare il modello di spazio-tempo, ma in cambio ci offre una visione diversa e feconda di fenomeni come la superfluidità, la superconduttività, la condensazione di Bose-Einstein e tante altre cose. Fino a nuove intuizioni in biologia teorica, ossia lo studio della materia vivente. […]
D: Qual è la differenza sostanziale tra Meccanica Quantistica ortodossa e le teorie realistiche?
R: Buona domanda! La Meccanica Quantistica è stata messa a punto negli anni ‘20 e trova la sua espressione tradizionale nell’equazione di Schrödinger, che si è mostrata utilissima e ha permesso un impetuoso sviluppo della fisica atomica, come la si chiamava allora. La MQ fissa un criterio fisico preciso per la nozione di piccolo, oggetti e processi dell’ordine della costante di Planck, e descrive gli oggetti quantistici tramite una peculiare funzione d’onda che ne differenzia il comportamento rispetto agli oggetti classici della fisica newtoniana. Le interpretazioni realistiche, pur nella varietà degli approcci, ricercano un significato fisico diverso a questo oggetto, il che porta a un cambiamento nello stesso concetto di particella e del suo essere nello spazio-tempo. […]
D: Ma in effetti la MQ funziona…
R: Cosa vuol dire che una teoria funziona? Che dà buone risposte all’interno del range di fenomeni che ne costituisce il dominio. In questo modo nascono le letture standard. Ma purtroppo una sorta di inerzia intellettuale fa sì che man mano che il dominio si amplia e le domande si accumulano, si tenda a far rientrare tutto nella forma fossile della teoria, invece di tentare strade alternative. La MQ è l’ABC del comportamento quantistico. Per capire davvero come funziona il mondo degli oggetti quantistici bisogna utilizzare la teoria quantistica dei campi (TQC), che si propone una trattazione unificata dei comportamenti di campi e particelle utilizzando i principi della relatività e della MQ. La discussione sulla MQ cominciò con le perplessità di Einstein, che ingaggiò un formidabile duello intellettuale con Niels Bohr con lo scopo di mostrare che l’interpretazione probabilistica era inconsistente o incompleta. In realtà c’era una certa nostalgia per il vecchio determinismo, che si nota anche in alcune delle prime teorie con variabili nascoste, elaborate con l’intento di mostrare la possibilità di schemi alternativi. Questo innescò una serie di dibattiti sulla casualità, la causalità, l’osservatore, il determinismo, molto interessanti ma in definitiva piuttosto sterili. Se consideriamo invece queste domande all’interno della TQC, tutto appare più concreto, e di immediata rilevanza fisica. Ad esempio, la struttura della particelle.
D: Insomma, il modo di leggere la MQ influisce sulla stessa nozione di particella?
R: Esattamente. L’essenza della faccenda è che ci sono grandezze che tendono a infinito avvicinandosi alla particella. E un infinito è sempre segno di cattiva salute in una teoria fisica. Nelle teorie realistiche, la funzione d’onda è parte integrante della descrizione della particella, e non un semplice artificio formale per far tornare i conti. Immaginiamo allora la particella come un oggetto esteso, non una banale sferetta, ma qualcosa di più complesso, ad esempio un pacchetto d’onde confinato, o una struttura like-soliton; o, spingendoci ancora più in là, eliminiamo le particelle come oggetti fondamentali e consideriamole processi emergenti dalla stessa struttura dello spazio-tempo, nella quale risiede il senso autentico della funzione d’onda. Un oggetto di questo tipo è certamente sfumato rispetto ad una rappresentazione classica, e si comprende come possano valere i limiti del concetto di “posizione” impliciti nel principio di indeterminazione di Heisenberg, senza per questo dover rinunciare in linea di principio a una rappresentazione! In questo caso possiamo porre diverse domande interessanti: come interagiscono oggetti di questo tipo? Cosa accade quando si avvicinano, nella zona di inter-penetrazione? Ecco delle buone ragioni fisiche per indagare il significato della funzione d’onda. Cambiare interpretazione, cambia anche il modo di lavorare e sviluppare il formalismo, e dà origine a nuovi modelli. Abbandonando l’ipotesi di oggetto puntiforme, di località e linearità nella descrizione delle interazioni, si delineano nuove possibilità, ad esempio in chimica quantistica. Tutte buone ragioni per andare con fiducia oltre le colonne d’Ercole dell’interpretazione ortodossa.
D: Che ne pensa della Teoria delle superstringhe?
R: Ritenevo sbagliato tentare di sviluppare una teoria così ambiziosa senza mettere in discussione la versione standard della MQ, e sono sempre stato convinto della necessità di abbandonare le nozioni del continuo. Ci sono stati da allora degli sviluppi molto speculativi ma assai interessanti che ho seguito con attenzione, relativi agli strappi o lacerazioni dello spazio-tempo (flops), e c’è un nuovo generale accordo sulla necessità di abbandonare la nozione di varietà continua sulla scala di Planck, ossia intorno a 10-33 cm e 10-43 sec. A questo livello anche la non-località dovrebbe apparire come un costituente fondamentale dello spazio-tempo. Più in generale, trovo interessante il tentativo di ridurre il numero delle proposizioni fisiche di base a un pugno di assiomi tenuto assieme da motivi di consistenza logica. Non è la prima volta che un programma di questo tipo viene tentato, la storia della matrice-S è stata dimenticata troppo in fretta, ma stavolta è possibile arrivare a qualche risultato interessante. Non soltanto tutte le versioni della teoria delle stringhe sono confluite nella M-Theory, ma si stanno indagando collegamenti profondi con altre teorie molto potenti anche se forse meno note, come i twistors di Penrose. Ognuna di queste teorie contiene un quantum veritatis, e mi aspetto delle confluenze interessanti in un futuro non troppo lontano.
D: Che posto occupa in questo scenario la sua Dinamica Reticolare?
R: La Dinamica Reticolare dello spazio-tempo è stata creata nel 1988, dopo una lunga gestazione, con l’idea di indagare le condizioni più generali per una radicale quantizzazione dello spazio-tempo. Immaginiamo per semplicità uno spazio-tempo a cellette, come il cubo di Rubik. A ogni cella è associato un oscillatore non-lineare. È il gioco molteplice degli accoppiamenti tra gli oscillatori che produce gli oggetti fermionici e bosonici, e recentemente ho potuto mostrare che le condizioni sulla tassellatura hanno un ruolo decisivo anche per questioni di cosmologia quantistica. Le difficoltà con una teoria di questo tipo consistono nel ricavare soluzioni analitiche dirette; le equazioni sono troppo complicate! La situazione si è sbloccata qualche anno fa, quando alcune strategie mi hanno permesso di semplificare il modello senza troppi sacrifici al suo senso fisico, e a proporne una versione basata sugli automi cellulari, che ben si presta alle simulazioni con un software che mi è stato fornito dal gruppo di Santa Fe. Anche t’Hooft di recente ha proposto idee analoghe. Mi trovo dunque in linea con altri “eretici”, come Wolfram e Fredkin sul mondo ad automi cellulari. Evidentemente il mio destino è quello di far parte di rumorosi partiti di minoranza! A questo punto è inevitabile chiedere qualcosa sulle relazioni tra teoria quantistica e informazione… La cosa più importante che si può dire è che senza la struttura quantistica del mondo non ci sarebbe informazione alcuna, o almeno non ci sarebbe mai informazione nuova. Nel mondo newtoniano, fatto di particelle puntiformi, deterministico e lineare, non potrebbero mai crearsi strutture, o comunque si replicherebbero sempre uguali a se stesse, e alla fine l’orologio cosmico sarebbe eroso dall’entropia. La gran varietà del mondo è strettamente legata alle statistiche fermioniche e bosoniche, e alla possibilità di un ampio gioco di livelli energetici che permette alle strutture di farsi e disfarsi. L’intero dibattito recente sulla teoria dell’emergenza e della complessità non può avere basi solide senza considerare il formalismo quantistico. […]
D: Si parla molto di teorie quantistiche della mente. Lei che ne pensa?
R: Ci sono diverse posizioni in questo campo. Ci sono quelli che ritengono che nel funzionamento della mente entrino in gioco, a vari livelli, effetti quantistici. Il più famoso oggi è sicuramente Penrose, con la sua teoria dei microtubuli caldeggiata da Hameroff. Così com’è, è una teoria che non regge, proprio per la questione della coerenza quantistica che abbiamo discusso, che non può conservarsi nel rumore termico del cervello. Mi piace anche ricordare alcuni lavori molto originali di Evan Harris Walker negli anni ‘70. Poi ci sono le posizioni alla Wigner, in un secondo tempo riprese e amplificate da Wheeler, secondo cui la mente dell’osservatore è responsabile di uno dei postulati chiave dell’interpretazione di Copenaghen, il collasso della funzione d’onda. È la mente dell’osservatore che nell’infinito spettro dello spazio delle possibilità sovrapposte, lo spazio di Hilbert, sceglie la realtà che viene osservata. È affascinante, ma per citare “Pulp Fiction”, rispetto alla fisica non mi sembra lo stesso terreno di gioco, anzi: non è neppure lo stesso gioco! Poi c’è il gruppo più interessante, che risale ad un lavoro di Umezawa e Ricciardi del ‘67, che propone il formalismo della teoria dei campi come strumento descrittivo delle strutture cognitive, con la creazione di pattern che si richiamano e si rinnovano. Lo spazio delle possibilità quantistiche, insomma, viene trattato come uno spazio dei pensieri! Si tratta di un approccio che potremmo definire rappresentazionale e che non ha particolari vocazioni biomorfe, anche se recentemente sono state studiate le possibili relazioni tra una descrizione di questo tipo e quelle basate sulle reti neurali. Due nomi importanti in questa direzione sono Eliano Pessa e Giuseppe Vitiello.
D: Cosa ci racconta la MQ sull’origine dell’universo?
R: Una cosa essenziale, che purtroppo non viene mai detta con chiarezza sufficiente: che la vecchia visione del Big Bang, inteso come palloncino termodinamico, è finita! Ci sono diversi modi per introdurre il fattore quantistico all’interno delle tradizionali soluzioni di Friedmann della Relatività Generale (RG), e la storia delle teorie cosiddette inflazionarie potrebbe ormai occupare un saggio a parte, ma è possibile delineare un panorama unitario, che nei prossimi anni si arricchirà di nuovi elementi. All’inizio era il vuoto quantistico, la forma più sottile e fondamentale di oggetto fisico. Questo vuoto era instabile e ricco di possibilità virtuali, contenute nella sua stessa struttura. Ragioni di coerenza sperimentale ed evidenze sperimentali ci suggeriscono di non pensare alla nascita dell’universo come a qualcosa di molto piccolo, una sorta di piccolo “atomo” di spazio-tempo-materia che “esplode” e si gonfia, ma piuttosto come a una nucleazione dal vuoto, al cui interno si “cristallizzano” zone separate come i domini di Ising in ferromagnetismo. E questa collezione di universi non e necessariamente retta da leggi simili; anzi, in ognuno i valori delle costanti fisiche possono essere sensibilmente diversi, e dunque diverso è il complesso della fisica di ogni singolo universo. Uno dei primi a indagare questo panorama vertiginoso fu il grande Sacharov, in uno dei suoi ultimi e bellissimi articoli. Adesso le domande interessanti sono quelle relative alle condizioni e al contorno, sia nella classe globale degli universi, che all’interno di ogni singolo dominio cosmologico. Un’altra questione è il gioco della non-località e del suo successivo lacerarsi durante lo sviluppo delle forme note di materia ed energia. C’è una tendenza ben fondata a recuperare il modello di De Sitter e la costante cosmologica, che ha un profondo significato fisico proprio in relazione alla fisica quantistica. Quello che qui mi preme, è ricordare il potente approccio gruppale al problema cosmologico ideato da Luigi Fantappié, uno dei più grandi matematici del secolo, e sviluppato dal suo allievo Giuseppe Arcidiacono, dai cui consigli e insegnamenti ho imparato molto più di quanto mi sia possibile qui ricordare. Si tratta di un metodo matematico che non impone modifiche ad hoc alla RG, e che fissa con grande eleganza matematica i risultati essenziali della “moderna” cosmologia quantistica. È una storia di “ordinaria rimozione”, come avviene spesso nella scienza. Forse si tratta di “pre-maturità”, forse è qualcosa di peggio, e più meschino.
D: Qual è il posto della MQ all’interno della fisica teorica? E chi aveva ragione alla fine, Einstein o Bohr?
R: Avevano ragione entrambi! Bohr correttamente insisteva sulla necessità di modificare i nostri schemi concettuali e linguistici entrando in un nuovo range d’esperienza. Einstein però aveva intuito che l’interpretazione probabilistica poteva innescare un processo irreversibile di polverizzazione di quelli che lui chiamava “elementi di realtà fisica” presenti nei nostri costrutti teorici. Nel mio libro cerco di mostrare come gli sviluppi nati dalle interpretazioni realistiche, e in particolare dall’ultimo Bohm, siano una sorta di complementarità Einstein-Bohr, a patto di ampliare le nozioni di spazio e di tempo utilizzando la non-località, la non-linearità e l’abbandono del continuo.
D: Ci saranno nuovi ripensamenti sulla Sfinge quantistica?
R: Ce ne sono ogni giorno, ma non ho intenzione di scriverci un libro ogni volta! Sono molto laico nel valutare le proposte teoriche, anche molto diverse tra loro, e mi piace esplorarne le possibilità. Ho la tendenza a pubblicare poco, e mi decido solo quando un’idea mi sembra sufficientemente solida da suggerire davvero qualcosa di veramente buono. Poi in questo periodo sono occupato nello sviluppo della teoria dei sistemi logicamente aperti, che è connessa alla teoria semantica dell’informazione, e ad alcune idee legate alla non-località e ai domini di coerenza in TQC. In ogni caso, non sarà necessario scrivere una terza Sfinge. Molto più realisticamente, mi verrà voglia di tornare su queste cose, ma mi accorgerò che le nuove leve scrivono cose per me ormai incomprensibili. È un bel modo di invecchiare per un teorico. Sapere che c’è sempre qualcuno che ha nuove domande da fare alla Sfinge.