È facile indicare il nemico, quando lo abbiamo davanti. Ha un nome, una sembianza – anche se il volto è coperto – e un’arma fumante in mano. Tanto basta. Non c’è bisogno di farsi altre domande, di cercare ragioni, di indagarne origine e provenienza.
Se partiamo da questo, il terrorismo islamico è un fenomeno molto chiaro da definire, con vittime e carnefici già individuati.
Il libro di Sadik al-Azm – L’Illuminismo islamico. Il disagio della civiltà – ci costringe a fare un passo indietro. Ci porta alle origini di quell’equivoco storico che è insito in ogni “-ismo” – terrorismo, fondamentalismo, islamismo, integralismo… – cioè che ci sia qualcosa di puro e incontaminato cha va difeso dalla modernità.
La storia è piena di “-ismi”, quella europea prima ancora di quella araba: basta ricordare le condanne a morte di Pio IX per conservare il potere temporale della Chiesa, in piena epoca unitaria, o i processi della Santa Inquisizione.
Si sente spesso parlare dell’interminabile “guerra” israeliana con gli stati limitrofi, giocata su un confine che non si riesce mai a determinare, su territori usurpati e rivendicati da una parte e dall’altra. Per noi europei è impossibile comprenderne il senso e il perdurare, perché noi europei non abbiamo mai “vissuto” in un recinto. Per i popoli medio orientali, il recinto è il territorio (fatto di case, corti, strade e attività produttive) in cui una famiglia è nata, cresciuta e si è moltiplicata per generazioni. Il territorio dunque, nella sua cerchia-identità-recinto, è la storia della dinastia. Ogni metro quadrato di una città è una storia di vita. Se non si comprende questo, non si può comprendere che il conflitto israelo-palestinese è prima di tutto un conflitto identitario.
L’area attorno al Mediterraneo è da secoli culla di imperialismo, colonialismo ed espansionismo. Tre “-ismi” molto pericolosi. A fasi alterne e con alterne fortune, i due fronti mediterranei – europeo e arabo-ottomano – hanno deciso delle sorti del mondo, di quel mondo che era anch’esso recinto d’acqua, culture e tradizioni. Ne dà una descrizione molto accurata, parlando delle Crociate, lo storico inglese Jonathan Riley-Smith, nel suo Al seguito delle crociate.
Da quelle epoche ormai dimenticate, gli arabi come gli europei sono “posseduti” da un impeto: partecipare ai processi della storia come attori, e non solo come spettatori. Magistrale la prospettiva storica, avversa alla nostra, così come delineata da Bernard Lewis, in Uno sguardo dal Medio Oriente.
Due forze uguali e contrarie – tre, se si aggiunge l’intervento americano in Medio Oriente a partire dalla seconda guerra mondiale – tra le quali, alla fine, gli arabi hanno avuto la peggio, rimanendo confinati nel loro stesso senso di marginalità.
Non si può separare la storia del mondo arabo moderno dalla storia europea. Non esiste una storia autoctona del mondo arabo contemporaneo, come vorrebbero i fondamentalisti. Il fondamentalismo si basa su un equivoco: una purezza della cultura araba che ha cessato di esistere da secoli.
L’invasione di Napoleone in Egitto, nel 1798, ha potuto – sulla distruzione dell’Impero Ottomano – più di quanto ottennero le Crociate. Napoleone segna l’irruzione della “modernità”, concetto che gli “-ismi” di qualsiasi partito e ideologia hanno sempre attaccato come il “demonio della corruzione”.
“La modernità è essenzialmente un’invenzione europea” (p. 130), scrive Sadik al-Azm. Qualcosa che proprio perché “portato” dagli europei, gli arabi non hanno mai imparato a integrare. Quello che gli arabi, anche i meno fondamentalisti, non accettano è che la rivoluzione avvenga su contenuti e valori “occidentali” (capitalismo, globalizzazione, progresso tecnologico, liberismo, democrazia…). Come conciliare la democrazia europea con il califfato islamico?
Si può bollare come cieca e ottusa l’avversione dei fondamentalisti per la modernità, in particolare per lo scientismo, quell’aspetto della modernità che secondo la dottrina ortodossa si piega all’idolatria e al nudo materialismo, ma per trovare soluzioni bisogna comprendere le differenze, non bollarle.
L’Europa moderna e industriale si è formata sui valori di una riforma protestante che è stata prima di tutto rivoluzione economica, e soltanto dopo battaglia religiosa. I valori, l’etica dell’Europa operosa, capitalista e individualista (come prescrive la dottrina della “responsabilità individuale” di Erasmo) sono in netto contrasto con una cultura, quella araba, in cui gli affari si compiono innanzitutto come rapporto di fiducia e “asservimento” tra consimili; in cui la giustizia è amministrata sul valore inalienabile della “verità” e della testimonianza; in cui il denaro è il corruttore; in cui il “recinto” (inteso, fisicamente, oltre che simbolicamente) è il primo e unico “mercato” in cui “contrattare” la propria esistenza.
“È contro l’Islam insegnare che la mescolanza dell’idrogeno con l’ossigeno può produrre acqua. La maniera islamica per dirlo è questa: quando gli atomi di idrogeno si avvicinano agli atomi di ossigeno, allora, per volontà di Dio, si produce acqua” (Sadik al-Azm, p. 24).
Si potrebbe pensare che la parte essenziale della frase sia “per volontà di Dio”, perché questo è l’aspetto a cui i fondamentalisti, e i mass media che ne fanno il gioco, danno maggior risalto. Ma la vera parte essenziale è il passaggio: “quando gli atomi di idrogeno si avvicinano agli atomi di ossigeno”. Si “avvicinano”. È questo il cuore della tradizione araba: due elementi, due persone, due entità si incontrano e in questo incontro si cela il mistero più grande, così come la legge, la consuetudine, la vita quotidiana.
Conciliare per la cultura araba è più importante di qualsiasi cosa. Ed è proprio da una mancata conciliazione – tra modernità e tradizione – che sono nati i suoi più grandi problemi.
Nel XX secolo è iniziato il “Rinascimento arabo”, contraddistinto da una forte critica del dispotismo ottomano e dal movimento costituzionalista in Egitto, Iraq, Siria, Iran.
La rivoluzione egiziana del 1919 contro il regime coloniale britannico era un movimento progressista, e tale si è mantenuto fino agli anni Trenta. Ma controriforma e fondamentalismo sono stati proprio la risposta a quella rivoluzione; risposta che si è concretizzata nel 1928 con la fondazione della “Società dei fratelli mussulmani”, la madre di tutti i fondamentalismi arabi.
L’Egitto ai tempi di Nasser (1956-1970) era un Egitto moderno: antimperialista, anti colonialista. Era il paese della riforma agricola, della nuova inclusione sociale, dell’allargamento dell’istruzione; ma era comunque culturalmente conservatore. Permaneva una scissione tra i mutamenti radicali della vita materiale e il conservatorismo sovrastrutturale (valori, idee, obiettivi).
Il nocciolo di ogni fondamentalismo è e rimane, innanzitutto, la famiglia nucleare: la prima monade sociale. Nei paesi arabi, come negli Stati Uniti, il fondamentalismo assume le forme della gerarchia dei sessi, del rapporto genitori-figli, della divisione del lavoro tra marito e moglie. Su questi aspetti micro-sociali, la politica può poco, ma la religione può moltissimo.
Nel 1969, Sadik al-Azm pubblica Critica del pensiero religioso, in cui denuncia come il conservatorismo religioso (all’epoca pilotato dallo sceicco al-Azhar e dal muftì del Libano) freni il rinnovamento e la modernità. Il libro viene accolto come una gigantesca esplosione culturale (un preludio di Rushdie), ma il suo autore e l’editore saranno maledetti per un mese intero nelle preghiere del venerdì.
Da allora si sono avvicendate diverse “primavere” arabe, tutte inutilmente finite in un bagno di sangue, tutte alla fine crollate dinanzi a quella nostalgia chiamata “tradizione”.
Come scrive Sadik al-Azm:
“Fin nel midollo, percepiamo noi stessi ancora come soggetti della storia, e non suoi oggetti, come suoi attori e non come suoi spettatori. Non siamo mai venuti realisticamente a patti, né tanto meno ci siamo riconciliati, con la marginalità e la nostra incapacità di reagire nei tempi moderni… Troviamo intollerabile la condizione di essere oggetti di una storia fatta, condotta da altri, soprattutto se ci ricordiamo che quegli altri furono (e dovrebbero essere di diritto) gli oggetti di una storia fatta, condotta, manipolata e decisa da noi…” (p. 127).
Si vive nel ricordo di glorie passate, nell’orgoglio di una ferita mai sanata, e si perde di vista la possibilità di ricominciare, ricostruire, cambiare.
Si perde di vista anche quella che è stata, per millenni, la vera anima democratica dei paesi arabi: la capacità di avvicinarsi, incontrarsi, parlarsi.
È anacronistico, tanto quanto struggente, il ricordo di Damasco di Sadik al-Azm. Siamo alla fine degli anni Novanta: “Attraverso una serie di circoli informali, privati e in continua relazione tra di loro, la gente di Damasco discute e ridiscute, argomenta e controargomenta, sviluppa e controsviluppa, imbroglia e sbroglia gli affari del mondo, grandi e piccoli, interni ed esterni, panarabi e locali, regionali e internazionali. Attraverso queste reti informali e questi incontri faccia a faccia personalizzati, assai efficienti e sempre in fermento, un’opinione pubblica ufficiosa solleva, forma e cristallizza tutte le questioni, le anomalie e i problemi del giorno. Un’opinione pubblica che i centri del potere prendono in considerazione senza mai ammetterlo formalmente” (pp. 85-86).
Che cosa è successo da allora? Chi o cosa ha annientato la voglia di parlarsi?