L’incipit impossibile e l’abisso di un click finale

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L’incipit di Sedici metri quadri, il nuovo romanzo di Gianni Perrelli, è una folgorante dichiarazione di impotenza e fallimento nella ricerca dell’incipit giusto. Nonostante Google ne metta a disposizione centinaia con un semplice click, l’ispirazione non sgorga. Resta solo il vuoto, la nausea. E se l’inizio è già il corso delle cose che da esso scaturiscono, alla stessa stregua la fine si stritola non tanto in una proclamazione quanto in un geniale click di fallimento auto digitato.

In mezzo a questi due picchi di vuoto e nausea ribolle il ventre oscuro di un vulcano. Sull’orlo del cratere Perrelli vi fa camminare – semi bendato – il protagonista maschile della sua storia, Sergio Tarantini.  Nato a Buenos Aires è stato allevato fin da bambino a Roma. Senza madre – da solo con il padre Atilio –, dalle sponde del Rio de La Plata si è ritrovato su quelle del Tevere, come uno dei due gemelli storici, allattato dalla città lupa, svezzato al cinema, nutrito ora a pellicole, riprese, sale di montaggio. Sul Tevere affacciano i 16 metri quadri del titolo nei quali Sergio si è transitoriamente murato vivo. Sui 16mq, invece, affaccia, incombe dall’interno il vulcano attivo.

Il personaggio femminile si chiama Carlotta. Anche lei nata a Buenos Aires ma lì cresciuta, in una famiglia agiata e in una casa molto confortevole. Anche lei allevata quasi soltanto dalla figura del padre, poiché con quella della donna-madre-padrona è arrivata presto a incarcerare ogni moto d’affetto. Viene a Roma perché ha il progetto di realizzare un documentario. Qualcuno la indirizza verso Sergio.

Eccolo, dunque, Sergio, già semi bendato, sull’orlo del cratere inquieto. Carlotta è quell’orlo. L’orlo di un erotismo vertiginoso. All’esterno, lo spettacolo di una bellezza femminile, giovanile che Sergio non ricordava di aver mai visto in Italia, ma che forse doveva portarsi sepolto dentro dai suoi pochi anni in Argentina. All’interno, un buio caratteriale, psicologico, ma tutt’altro che un vuoto, poiché si ode un movimento, un salire e scendere di un magma buio ma denso di gas, potenza, proibitiva temperatura.

Carlotta è anche La fuggitiva, proprio nel senso che Proust dà alla sua Albertine scomparsa. La gelosia immaginativa di Sergio offre squarci improvvisi della gelosia febbrile di Marcel, ma nello sfondo più lacerato, nel brusio insensato, nella lingua anch’essa più fuggitiva delle capitali odierne. Capitali: al plurale, e non al singolare, perché non è Roma la sola scena che l’autore fa assurgere a personaggio narrativo. Questo è un tema ormai consolidato nella narrativa di Perrelli.

Flaneur internazionale qual è stato per molti anni nella sua attività di corrispondente dall’estero, le tante città che ha descritto, nelle quali ha realizzato reportage, ciondolato avanti e indietro, consumato solitarie birre e caffè, in attesa di un appuntamento per un intervista cruciale; ecco tutta questa stratificazione tanto toponomastica quanto estetica, se la porta ormai dietro negli sguardi, nei gesti, nell’andatura, nelle posture, nelle ossa e non solo nella testa come stile e psicologia.

Parigi è la capitale-personaggio che non appare mai, ma è sempre citata, rammemorata come città ideale per un artista o profugo, fuggitivo argentino dalla dittatura militare, dall’orrore delle sue torture, dei figli strappati alle madri appena nati, regalati in adozione ai generali e alle loro mogli, i corpi dei genitori rovesciati a centinaia dagli aerei direttamente in mare. Più che la fuggitiva Carlotta, Sergio insegue il mistero che lei gli pone e gli rinnova a ogni nuova fuga o scena di sesso, così quale lui
febbrilmente la immagina tra lei e più uomini in una pensione per puttane latine alla Stazione Termini.

Certo, Carlotta non è Albertine e quella stanza della sua amica colombiana non è il salotto dei Guermantes, né lì si parla la lingua che Marcel carpisce, stilizza in quell’esclusivo nido di nobili. Forse è questo fondale storico, di civiltà politica e tradizione culturale che un argentino sente mancargli alle spalle e che, per questo, lo attrae verso una Parigi più trasfigurata dall’ideale che reale. Con tutto questo, però, Albertine, non è l’orlo del cratere che è Carlotta.

La lingua letteraria di Perrelli è un precipitato del gergo comune, coniato in una cifra sintetica, elegantemente sobria, fluida nel conferire una nuova forma o senso, uno stile inedito anche a quelle espressioni, locuzioni, modi di dire, alludere e disdire che si sedimentano nei mass media e trasmigrano nella comunicazione umana di tutti i giorni, per tornare ancora in circolo trasformate, pronte per un nuovo riuso e così all’infinito. Anche la tessitura delle conversazioni tra i personaggi nei bar, ristoranti, al telefono, a letto, utilizza i diversi fili argomentativi e tonalità cromatiche dell’attualità politica, sociale, dei modi, usi, abitudini, degenerazioni del costume di un Paese, di una città, di un ambiente.

A ogni nuova fuga di Carlotta e – soprattutto – a ogni sua nuova riapparizione aumenta la condizione di accecamento sull’orlo del cratere di Sergio, fino al buio totale. Una situazione che l’autore aveva seminato già nella prima pagina, subito dopo quel drammatico e insieme ironico auto affondamento del tanto inseguito incipit letterario. Carlotta corre a Termini, ma non dalla sua amica squillo colombiana, insieme alla quale Sergio immaginava chissà quante perversioni erotiche intrecciasse. No, fugge proprio verso la stazione ferroviaria. Lui la insegue, la raggiunge qualche minuto prima del
fischio del capostazione. “Me ne vado per sempre”, gli dice. “Perché”, domanda Sergio. “È così, sono una persona libera, sono incinta”. Sergio rimane da solo sulla banchina.

Dentro il treno che parte c’è Carlotta. Ma il figlio dentro di lei di chi è? È il buio più totale, è la caduta, il volo dall’orlo del cratere verso il fondo del suo magma oscuro. È quello del figlio sconosciuto, lontano o addirittura negato, un altro tema fin qui ricorrente nella narrativa di Perrelli.

In Non avrai altro dio, il suo romanzo del 2009, il protagonista si percepisce egli stesso come un figlio irrealizzato, così da sembrargli quasi irreale avere lui un figlio dalla donna che ama e che alla vigilia delle nozze la tragedia americana dell’11 settembre 2001 settembre le strappa atrocemente via. Da questo figlio a cui la storia politica umana nega una sua storia individuale, a quello del romanzo successivo, Il tunnel”, del 2012.

Qui il protagonista, nel pieno della sua maturità e di una sua crisi esistenziale e materiale, comincia a ricevere un crescente stillicidio di laconiche mail, smozzicati messaggi in segreteria telefonica da una persona che afferma di essere suo figlio, in un vortice di smarrimento mnemonico e temporale all’indietro che gli rende ancora più incerto ogni già difficile passo in avanti. Ora in questo Sedici metri quadri, abbiamo un rovesciamento: è un figlio che non potrà, non dovrà mai sapere chi è il suo vero padre. L’impossibilità – davvero – dell’incipit dal piano letterario si sposta a quello esistenziale, se non addirittura ontologico.

Il ventre nero, ribollente del vulcano è Buenos Aires. Sergio vi torna, dopo tanti anni, consciamente alla ricerca della fuggitiva e di quel figlio suo. “Suo” di chi? Solo di lei? O anche di lui? Ma sa che inconsciamente sta cercando di svelare un altro mistero, ancora più originario: il suo di passato, la sua di origine, le tracce della sua di madre. Inghiottita un giorno nei gironi infernali del sistema di sequestro, tortura ed eliminazione messo in piedi dalla dittatura militare, di quella donna nessuno ha saputo più niente.

Né Atilio, il padre di Sergio, fuggito con il bambino in Italia, perché anche lui ha addosso la muta latrante dei mastini militari, né le madri e poi le abuelas, le nonne di Plaza de Mayo. Di Alicia Domenech, architetta rinomata, grande donna di azione e di pensiero, da tutti ammirata e apprezzata per il suo alto lignaggio umano e morale, non resta più neanche la più vacua ombra di memoria. Solo tre vecchie foto, portate via da Atilio nella fuga precipitosa.

Qui Perrelli, attraverso il suo personaggio, entra davvero nel ventre buio di un inferno e ricostruisce una grande agghiacciante pagina di storia, restituendole, fin nei dettagli, tutta la dimensione di immane tragedia consumata, attraverso i crimini più spietati, dalla follia del potere costituito contro l’umanità.

Senza tradotte ferroviarie piombate, deportazioni, campi, forni, gas Zyklon B, i militari argentini, al pari dei nazisti, hanno ugualmente eretto a efficiente macchina di sistema la tortura e l’eliminazione di una massa umana indifesa del loro popolo. Sequestro, sparizione e reclusione dentro i tunnel di tortura della Escuela Mecanica de la Marina (ESMA) o dei vari Garage Olimpo diffusi per il paese; trasbordo collettivo su aerei Electra o Skyvan PA-51; apertura del portellone posteriore o ventrale; rovesciamento istantaneo del carico umano, tramortito e denudato, in alto Oceano Atlantico. I famigerati “vuelos de la muerte“.

A tutto questo deve aggiungersi l’ultimo orrido tassello, il picco di follia concepito è consumato da tale sistemico ingranaggio. Lo strappare i neonati alle puerpere, prima di scaraventarle in mare, per donarli come prede da adottare alle famiglie del vertice degli aguzzini che gli avevano scannato le madri e anche i padri.

Perrelli ci guida passo passo dentro questo claustrofobico strazio, facendocelo sentire come un micidiale pugno che ci arriva direttamente “dentro” lo stomaco. La lingua letteraria usata in questa parte abrasivamente drammatica del romanzo non si discosta molto da quella usata nella fase dell’orlo erotico precedente. È, infatti, la lingua di quella diffusa figura di persona comunemente colta, formata ai valori dell’umanesimo classico e contemporaneo, che tenta di esprimere l’inesprimibile di una tale sproporzione drammatica da non avere più rapporto logico e linguistico con le parole e il pensiero.

Già nei due citati romanzi precedenti le vicende narrate hanno al loro centro eventi bellici e politici, con un portato di follia che si rovescia sempre sulle esistenze dei personaggi e le devasta. Il mestiere dell’autore di sperimentato reporter internazionale nelle più diverse situazioni di tensione o di guerra si avverte però in questa sua opera in maniera diversa.

Da una parte con più acutezza, dall’altra quasi avesse trovato una maggiore giustificazione, se non addirittura destinazione letteraria. Si percepisce sì nella precisione della descrizione di ambienti e circostanze, nella ricostruzione in forma di finzione narrativa, ma sempre su base documentale, delle vessazioni bestiali subite dalle vittime. La sua capacità giornalistica di saper ricomporre in una visione d’insieme i tanti tasselli sparsi è qui, però, totalmente messa al servizio dello svelamento di un nuovo abisso del male, pianificato ancora una volta, con attitudine sistemica, nel corso del secolo scorso, da un potere politico statale e dal suo dominante assetto economico.

Non può esservi l’incipit giusto,  non si può iniziare neanche a dare adeguata forma letteraria e di pensiero al ventre ribollente della follia, al magma dell’insensata crudeltà che si addensa nelle menti dei potenti e si abbatte sui gruppi, sulle famiglie, sugli individui, seminando altro delirio, pazzia, incubi e ombre di fantasmi incancellabili nelle generazioni a venire. Pure se un fiore isolato di pietà umana può attecchire dentro quei labirinti di amministrazione e somministrazione programmatica dell’orrore, non può che prendere anch’esso l’odore dello squallore che l’ha generato. Questo ci mostra l’autore nella discesa del suo personaggio nelle viscere di quell’inferno che sono ormai le sue medesime viscere a cielo aperto.

E la consistenza inconsistente di un fantasma incancellabile assume ora per Sergio la figura di sua madre Alicia Domenech. Piegata a strisciare sulla soglia tra l’umano e il subumano – come John in Non avrai altro dio – lei mantiene elevato il suo lignaggio umano nel precipizio di quel sotterraneo di segregazione e tortura. Man mano che gli si fa chiara la vicenda materna nelle mani dei macellai dell’ESMA, si accorcia anche la distanza con il segreto ricorrente, permanentemente ossessivo per lui della fuggitiva. Carlotta lo aspetta nascosta da qualche parte, tra la Boca e Carlos Pellegrini, a Buenos Aires.

Non gli sarà stato sufficiente, però, essere scivolato dall’orlo erotico del cratere al magma ribollente nel suo ventre. Un altro assordante, allucinato giro di vite – per dirla con Henry James – lo attende.

Proprio come Marcel Proust nelle ultime righe del Tempo Ritrovato, così anche Sergio Tarantini, alla fine di tutto, potrà affermare la sua capacità di scrivere quel romanzo folle che è stato la sua vita. Il romanzo scritto nella clausura forzata di 16 metri quadri, quasi un confessionale. Scritto dall’autore senza un incipit degno, nonostante un dozzinale click su Google ne offrisse a centinaia. E la fine?

La fine sì: è senz’altro all’altezza dell’abisso racchiuso in un semplice click.

Riccardo Tavani