Sappiatelo: il concetto di razza non ha alcun fondamento scientifico. È vero, esistono differenze innegabili tra le diverse specie e tra i vari gruppi umani – pensiamo al colore della pelle e dei capelli, alla statura, alla forma degli occhi – che di sicuro sono ereditarie, evidenti e indiscutibili, ma che non costituiscono una tipologia genetica a parte. Ci basti pensare che tra il codice genetico di un uomo e di una scimmia, la differenza è soltanto del 3%. Tecnicamente apparteniamo a uno stesso ceppo genetico.
Dunque, queste diversità non hanno nulla a che vedere con la storia della purezza e della superiorità della razza caucasica, con quel sentimento che sfocia nel razzismo, laddove la paura è tanta e si è spesso troppo diffidenti e poco coraggiosi per indagarla, quella stessa diversità.
Un’indagine alla quale Luigi Cavalli Sforza, genetista, ha dedicato una vita intera di analisi e studi approfonditi. E sappiate che per farlo ha dovuto chiamare in causa genetica, antropologia, matematica, statistica e biologia, avvalendosi di un approccio multidisciplinare che lo ha condotto a sviluppare gli strumenti necessari per analizzare gli alberi genealogici delle specie e delle popolazioni.
Già professore emerito alla Standford University e autore tra gli altri de “Il caso e la necessità” (Di Renzo Editore), Cavalli Sforza, padre fondatore della cosiddetta genetica delle popolazioni, elaborando le sue riflessioni sulla razza umana, ha dimostrato l’infondatezza della categorizzazione umana e del concetto di razza sul piano sperimentale e matematico, nonché da un punto di vista sociale e biologico.
Già Darwin, quasi un secolo e mezzo fa, notava che vi è quasi sempre una sorta di continuità geografica nella variazione fra i gruppi umani e che, osservando la loro distribuzione da una capo all’altro del mondo, si passava piuttosto gradualmente da un tipo ereditario a un altro molto diverso (registrando solo rare e sottili discontinuità): se dovessimo dar fede ai “sostenitori della razza”, dovremmo contarne davvero di innumerevoli, perché ogni variazione costituirebbe motivo di recriminazione.
Gli studi di Cavalli Sforza, analizzando la storia delle migrazioni dell’uomo e le interazioni tra geni e cultura, hanno dimostrato che non c’è nessuna distinzione netta tra i diversi gruppi di individui di una stessa specie, e che le difformità genetiche esistenti non si legano a un modello cromosomico unificato.
Le mutazioni genetiche, proprie del DNA, sono il risultato di una dinamica evolutiva e di adattamento ambientale – ecologico e climatico – da parte dell’uomo durante la sua espansione sulla Terra, con lo scopo di salvaguardare la propria sopravvivenza. Evoluzione che non si basa semplicemente su meccanismi di selezione naturale, ma che deve anche molto alla cosiddetta deriva genetica, cioè alla componente casuale che interviene nella trasmissione di un determinato gene piuttosto che di un altro, e che agirebbe influenzando non solo il quoziente intellettivo, ma anche alcune caratteristiche fisiche, concorrendo all’estinzione della specie (da qui l’importanza fondamentale della biodiversità).
Combinando la demografia con le analisi dei gruppi sanguigni nella popolazione, il genetista comprese che proprio in virtù dei continui flussi migratori, le popolazioni umane avevano continuato a rimescolarsi nel corso di tutta la storia dell’uomo moderno, e che nessun gene singolo era sufficiente per classificarle in categorie scientifiche. C’è di più: si scoprì anche che la variabilità genetica tra due individui della stessa popolazione era mediamente maggiore della variabilità tra due popolazioni anche molto distanti.
Se quindi, in base alle osservazioni del genetista, la diversità di una tipologia rispetto alle altre deve farsi oggetto di significatività statistica, considerato l’elevato indice di mobilità e di flusso genico, va da sé che è impossibile parlare di purezza della razza.
Ha detto Cavalli Sforza: “Il concetto di razza nella specie umana non ha ottenuto alcun consenso dal punto di vista scientifico, e non è probabilmente destinato ad averne, poiché la variazione esistente nella specie umana è graduale”.