Anche quest’anno, come ogni anno dal 2005 quando è stata istituita, il 27 gennaio in tutto il mondo si commemorano le vittime dell’Olocausto. E come tutti gli anni, si discute sul significato del ricordo e della memoria: perché? Perché ostinarsi a voler ricordare vicende così dolorose che gli stessi protagonisti hanno spesso scelto di dimenticare?
Perché ricordare significa non perdere traccia di eventi che potrebbero accadere di nuovo; perché la memoria “storica” può aiutarci a metterci in discussione, a ripercorrere il passato e a tracciare su di esso il nostro cammino per il futuro. Settantacinque anni dopo la liberazione di Auschwitz, però, è difficile trovare ancora testimoni diretti: quei sopravvissuti che si erano assunti il compito di raccontare gli orrori dei campi sono morti o vecchi. Spesso stanchi.
Le loro storie, però, sono più vive che mai: nei romanzi, nelle biografie, nei film, nei documentari, nei libri di storia. E continuano, soprattutto nella narrativa e nella cinematografia, a suscitare l’interesse del grande pubblico.
Storie preziose, di gente “come noi”, che consentiranno alle generazioni future di non dimenticare mai che la storia può ripetersi. L’amico ritrovato, La chiave di Sara, La bambina che salvava i libri, La verità negata, Ogni cosa è illuminata, Un sacchetto di biglie, Ad alta voce, Il viaggio di Fanny. Dolore, morte, infanzia negata, fughe rocambolesche, amicizie divise. Storie che possono non aggiungere nulla alla conoscenza dell’evento in sé, ma che pungolano le nostre coscienze, stimolano l’amigdala a conservarne per sempre i ricordi ed emozioni.
Il significato della Giornata della Memoria è questo, andare oltre la vicenda storica per ricordarci cosa siamo stati e cosa potremmo essere di nuovo: e per questo è ancora così sentita, discussa, ragionata. “Se comprendere è impossibile,” scrive Primo Levi, “conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.”