I sentieri della ricerca e fisica

Fisica e nuove visioni del mondo

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David Peat fisico teorico inglese, trae dalla scienza lo spunto per una ricerca sul senso del mondo e della vita umana. In questa intervista, che prende lo spunto dalla pubblicazione in italiano della sua autobiografia «I sentieri del caso» ci comunica l’essenziale di quanto ha scoperto ed elaborato in un lungo ed affascinante percorso di ricerca scientifica ed interiore.

Il titolo del suo libro-autobiografia è un po’ sconcertante: perché “I sentieri del caso”?

Ci sono persone che pianificano la propria esistenza fin nei minimi particolari e che esercitano la stessa professione fino al pensionamento. La mia vita invece è stata arricchita da tutta una serie di incontri – fortuiti o meno – che mi hanno portato su vie sempre nuove: ho lavorato come fisico teoretico, come scrittore, ho studiato le usanze dei nativi d’America, ho frequentato molti artisti, mi sono trasferito in Italia e ho aperto il Pari Center for New Learning.

Secondo alcuni filosofi e religiosi il paradigma basato sulla ricerca cartesiana di certezze ci ha portati nella attuale empasse socio-ambientale. Lei concorda con questo pensiero?

Si, sono d’accordo. Credo però che il modo di pensare di cui parliamo sia più antico di Cartesio. Penso che risalga all’adozione dei numeri arabi e della contabilità a doppia partita; alla stesura di mappe precise dei territori; alla secolarizzazione del tempo iniziata quando le autorità cominciarono a mettere orologi sugli edifici pubblici. Tutto ciò ha fatto sì che noi considerassimo il mondo come qualcosa di astratto, che lo trattassimo come un oggetto che poteva essere manipolato dalla nostra mente. In altre parole tutto ciò ci ha dato l’illusione del controllo. Così, oggi, se le cose non funzionano come avevamo previsto ci sforziamo di controllarle ancora di più e spesso usiamo metodi che fanno violenza alla natura, ad altri popoli e ad altre culture.

Le scoperte della meccanica quantistica possono fornire le basi per un nuovo paradigma e lasciare in un certo senso il mondo delle idee astratte per entrare nel sentire comune?

Sì, la teoria dei quanti dà grande importanza all’osservatore e alla globalità dell’osservazione. È una teoria della totalità e va oltre la nostra visione limitata di causalità. Ci permette di pensare in termini di processo e di trasformazione invece che di oggetti fissi.

In che modo possiamo metterle in rapporto con la nostra vita di tutti i giorni?

Molti scrittori stanno esplorando metaforicamente la teoria dei quanti nella loro opere e credo che ciò influisca piano piano sul modo in cui tutti noi vediamo il mondo. Oggi ormai si tende a guardare il mondo più come un organismo che come una macchina – un orologio newtoniano. Credo anche che non consideriamo più noi stessi e la società come tante macchine che si possono aggiustare, ma come qualcosa di più sottile e complesso.

Lei mette in relazione la scienza con l’arte, la cultura in generale. Scienza e arte possono dialogare?

Sì. Credo che i miei migliori interlocutori siano stati artisti: artisti visivi, ma anche scrittori e compositori. Spesso l’ispirazione è simile: gli artisti prendono idee a prestito dagli scienziati e dalla loro tecnologia, ma a volte capita anche che uno scienziato scopra nell’arte un motivo di profonda illuminazione. È stato il caso per David Bohm che nel suo lungo scambio epistolare con l’artista Charles Biderman ha trovato gli spunti per elaborare nuove idee sull’ordine nella scienza.

In che modo si spiega questa collaborazione tra artisti e scienziati?

Credo che gli artisti e gli scienziati affrontino le cose in modo sottilmente diverso ma complementare. Del resto anche la “bellezza” è molto importante in matematica e nella fisica teoretica: si tratta di un parametro che permette di trovare la strada giusta. I fisici sarebbero profondamente sconcertati da una teoria sull’universo che non fosse bella.

Quale ruolo ha l’arte nella sua vita e nel suo pensiero?

Credo che abbia un ruolo importante anche se sottile. Spesso interviene quando devo trovare la cosa giusta da fare in una certa situazione, in un dato contesto. Scoprire ciò che è “giusto” è un po’ come trovare il punto di equilibrio quando ci si arrampica su una parete rocciosa, o quando si cammina su un costone molto stretto. Non è un ragionamento intellettuale né analitico, bensì qualcosa che si “sente” dentro. Credo che sia un po’ come quando Jackson Pollock sentiva quale era il gesto giusto per spruzzare o gettare la pittura sulla tela.

Lei parla della differenza tra il linguaggio dei nativi americani e il nostro. Il nostro linguaggio “informa” il nostro modo di vedere la realtà, precludendoci addirittura certe esperienze?

In effetti, l’ipotesi linguistica di Whorf-Sapir suggerisce un profondo legame tra linguaggio e visione del mondo. Il nostro linguaggio è fatto soprattutto di nomi e di verbi. La frase “Il gatto dà la caccia al topo” è composta di due oggetti collegati da un’interazione, esattamente come nella fisica newtoniana. Per i Piedineri o i Cree, e per tutti coloro che parlano lingue della stessa famiglia, la frase suonerebbe così: “la caccia è in corso”, il che mette l’accento sull’attività, sul movimento, sul processo, piuttosto che sugli oggetti.

In un certo senso direi che le lingue europee di oggi si adattano bene al mondo quantistico del processo e della trasformazione. Come diceva Niels Bohr in questo contesto, “Siamo sospesi nel linguaggio in modo tale che non sappiamo né cosa sta sopra né cosa sta sotto”.