Undici anni fa su L’Espresso uscì una bellissima intervista sulla “bio genetica” a Freeman Dyson fisico e matematico britannico conosciuto in tutto il mondo per la Sfera di Dyson, per il concetto della Civiltà eterna di Dyson e le sue affermazioni spiazzanti. Rileggendola abbiamo deciso di ripubblicarla interamente.
L’articolo iniziava con queste righe: La possibilità di trasferire geni tra specie diverse sarà alla portata di tutti. Con nuovi scenari. E molti rischi.
La distinzione fra le specie? Sarà sempre più blanda grazie alla nostra crescente capacità di trasferire geni fra orgasmi viventi di specie diverse: parola di Freeman Dyson, scienziato di fama assoluta, considerato uno dei cinque geni scientifici viventi, a cui piacciono le affermazioni che spiazzano. Perché lui non prova nessun disgusto di fronte alle manipolazioni genetiche, anche le più audaci. Gli abbiamo chiesto come vede il nuovo mondo biotech.
Professor Dyson, siamo a una svolta nella storia dell’uomo?
«A dire il vero il punto di svolta si è avuto una decina di migliaia di anni fa, quando una specie su tutte, l’uomo ha vinto la competizione e ha cominciato a riorganizzare a suo uso e consumo la biosfera. Da allora il cambiamento non è stato più trainato dall’evoluzione biologica, quanto da quella culturale. Il che ha accelerato il ritmo del cambiamento, perché le idee hanno la caratteristica di essere enormemente più veloci dei geni nel trasferirsi da un individuo all’altro. Ma negli scorsi trent’anni l’uomo è andato più in là: ha cominciato, grazie alla biotecnologia, a trasferire i geni».
Una padronanza dell’ingegneria genetica che avrà ovviamente notevoli ripercussioni sul futuro dell’uomo in quanto tale.
«Assolutamente. Il futuro dell’evoluzione umana sarà radicalmente diverso dal passato. Avremo la possibilità di determinare, nel bene o nel male, la nostra evoluzione: ogni generazione avrà infatti i mezzi per modificare il corredo genetico dei propri figli.
I limiti saranno dati da un lato dalle leggi, dall’altro dei costumi e dai desideri della società. Le prime sono oggi, per quanto diverse da Paese a Paese, assai restrittive e punitive per chi li viola; difficile dire come evolveranno in futuro: ma è presumibile che un certo grado di libertà di intervento genetico verrà ammesso. E qui diventano importanti le scelte degli individui e della società. Al riguardo c’è qualcosa che mi preme sottolineare: i genitori, potendo scegliere, cercheranno di migliorare i propri figli nelle loro capacità fisiche e intellettuali.
Ma modificare geneticamente il modo in cui opera il cervello è intrinsecamente pericoloso, un po’ come darsi all’uso di droghe che danno assuefazione: si perde il contatto con la realtà e si mettono in discussione le radici emozionali dell’individuo.
Ne può risultare compromesso il sistema di valori, sia individuale che dell’intera società. L’intelligenza, ricordiamolo, è un mezzo per raggiungere un fine che è determinato dalle nostre emozioni e dal nostro sistema naturale di valori. Non a caso le strutture limbiche del nostro cervello, in cui si reputa risiedano le emozioni, sono più antiche della corteccia cerebrale che è sede della nostra intelligenza. Potrebbe perciò essere pericoloso modificare geneticamente i nostri figli per cercare di renderli più capaci e, in ultimi analisi, più felici. E poi, un essere umano sempre felice non sarebbe più davvero umano».
Come sarà allora l’uomo del prossimo secolo?
«Non credo che gli umani del 2105 saranno molto diversi da quelli del giorno d’oggi. Ammesso che, come abbiamo detto, venga concessa una certa libertà in materia di interventi genetici, immagino che saranno molto pochi i genitori che sceglieranno di avere figli decisamente diversi da sé. Ma non sono sicuro che le risponderei così se lei mi chiedesse se potremo ancora riconoscere simile a noi un essere umano del 3005».
A proposito di utilizzo della biotecnologia, lei ha anche scritto: «In un futuro non lontano la biotecnologia diventerà un’attività domestica, condotta con kit biotech fai-da-te». Perché, e come ciò potrebbe avvenire?
«Cinquant’anni fa ero a Princeton quando John von Neumann realizzò il primo elaboratore elettronico capace di operare sulla base di istruzioni codificate, il cosiddetto software. Egli si rese subito conto che la sua invenzione avrebbe cambiato radicalmente il mondo, e che i discendenti della sua macchina sarebbero diventati fondamentali nella ricerca scientifica, nella gestione del business o nelle varie attività dei governi.
Ma pensò sempre che i computer sarebbero rimasti enormi e costosissimi, al servizio di grandi istituti di ricerca e grandi istituzioni politiche o commerciali. Non capì che la sua invenzione poteva divenire tanto piccola ed economica da poter essere alla portata di tutti, anche di ragazzini che la usassero per farci i compiti o divertirsi con i video giochi.
Oggi nei confronti della biotecnologia vedo un atteggiamento alla von Neumann: l’ingegneria genetica è considerata un’attività destinata a restare per sempre nelle mani e sotto il controllo delle grandi corporation farmaceutiche o dell’agribusiness come Monsanto. Io invece sono convinto che si ripeterà quanto già accaduto con i computer. Accadrà perché il biotech in versione domestica apre grandi opportunità ai singoli individui, proprio come è successo con i personal computer. E se il biotech arriverà alla portata della gente, la gente lo vorrà; e se la gente lo vorrà, ci sarà chi lo produrrà e lo venderà».
Ma lo vorrà per farci cosa?
«Un po’ di tempo fa ho passato una giornata al Philadelphia Flower Show, la più importante mostra di floricultura del mondo, dove i coltivatori accorrono orgogliosi a mostrare le loro creazioni botaniche. Guardando i risultati degli innesti e degli incroci creati da costoro mi sono chiesto che cosa queste persone saranno in grado di fare il giorno che avranno a loro disposizione i kit fai-da-te di ingegneria genetica.
Immagino che verranno realizzate varietà totalmente nuove di rose e di orchidee o, dagli amanti di animali domestici, nuove subspecie di cani e gatti, di piccioni e pappagalli. Il risultato, per certi versi paradossale, sarà che l’ingegneria genetica alla portata di tutti provocherà una vera e propria esplosione della bio-diversità, proprio il contrario della spinta alla monocultura che cercano di imprimere oggi i detentori di questa tecnologia.
Lo stadio finale del processo di banalizzazione e massificazione della biotecnologia saranno per l’appunto i “biotech games”, con cui i ragazzini, muniti di sintetizzatori del Dna a bassissimo costo che acquisteranno come oggi acquistano L’iPod o GarageBand, giocheranno usando vere uova e sementi vive, proprio come oggi giocano con le immagini sullo schermo dei computer.
D’altronde chi avrebbe mai ipotizzato la comparsa dei videogame quando l’utilizzo principe dell’elaboratore di von Neumann era lo studio per la creazione della bomba a idrogeno?».
Un simile scenario inquietante avrà pure delle controindicazioni?
«Giocare con il biotech è certamente rischioso. Come è pure evidente che l’aumento della bio-diversità per questa via potrebbe produrre effetti collaterali indesiderati, peraltro, credo, ampiamente compensati dagli aspetti positivi. È chiaro quindi che, a parte il solito ruolo che giocherà la fortuna, dovranno essere pensate alcune regole e norme per evitare che queste pratiche facciano danno a chi le usa e agli altri».
Lei ammette la necessità di regole e norme per la pratica del biotech: ma contesta duramente la censura della ricerca, che molti propongono nel campo della biotecnologia in virtù dei rischi senza precedenti e delle conseguenze irreversibili cui ci si esporrebbe creando nuovi organismi viventi.
«La censura aprioristica di una parte della conoscenza finisce poi per inibire ogni forma di attività intellettuale o di ricerca. È per esempio successo in italia ai tempi di Galileo, e in Russia ai tempi di Lysenko. A parte ciò, è una strada che si presta agli abusi politicamente motivati. Quanto alla percezione di un pericolo inedito e ai rischi irreversibili, consiglio di dare un’occhiata alla “Aeropagitica” di John Milton, il discorso al Parlamento inglese con cui il poeta inglese perorava la causa della totale e incondizionata libertà di stampa.
Era il XVII secolo e l’Europa era in preda a guerre devastanti, in gran parte a carattere religioso. Lasciare circolare liberamente le idee era considerato un rischio potenzialmente letale e irreversibile per lo stesso destino del continente. Un rischio che Milton sosteneva andasse però comunque corso. Ebbene, io ritengo si possa fare un parallelo fra il timore del contagio della libera circolazione delle idee di allora, con il timore del contagio di agenti patogeni o organismi generati dalla libertà di ricerca. Timori fondati, ma in entrambi i casi non risolvibili inibendo la conoscenza. Non dimentichiamolo mai: non c’è alcun motivo per dimostrare che, fermando la biotecnologia, il mondo possa diventare un posto più sicuro».
L’espresso, n. 21, 2 giugno 2005, pag. 180 – Stefano Gulmanelli