Bernard Lewis e la storia degli arabi

Bernard Lewis, gli arabi il medio oriente e la storia

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Il 31 maggio 2016, Bernard Lewis – lo storico e orientalista inglese (naturalizzato americano nel 1982) – compie 100 anni: un’occasione preziosa per rivederne insieme l’enorme contributo alla storia del Medio Oriente e dell’Islam.

Insieme a Sadik J. Al-Azm (filosofo siriano), Jonathan Riley-Smith (storico inglese delle Crociate) e a Edward W. Said (lo scomparso storico palestinese naturalizzato americano), Bernard Lewis è la voce più autorevole in materia.

Negli ultimi quarant’anni, ha curato la Cambridge History of Islam (un’i26stituzione, in materia) e ha pubblicato più di trenta saggi, il primo dei quali a 24 anni, nel 1940 (The Origins of Ismailism, con una tiratura di 500 copie!), e l’ultimo nel 2012, a 96 anni. Tutti scritti di suo pugno.

Bernard Lewis infatti è un “collezionista seriale” di reperti storici e un “maniaco” delle lingue (traduce personalmente ogni citazione proveniente da documenti originali in arabo). Per chi studia la storia di una cultura diversa da quella di appartenenza, la traduzione è tutto. Conoscere la lingua, la filologia del proprio oggetto di studio, non è una velleità. È una necessità, perché la lingua interpreta il mondo.

La sua fortuna è stata la Princeton University, dove si è trasferito nel 1974, come docente emerito di Near Eastern Studies. Fortuna perché un contratto particolarmente vantaggioso gli consentiva di insegnare per un solo semestre, senza incarichi amministrativi (tesisti, borsisti etc.), mantenendosi libero per le proprie ricerche l’altro semestre. Così, in quei sei mesi di libertà accademica, Lewis ha messo mano allo scrigno dei suoi archivi – dove cataloga meticolosamente ogni singolo dato storico, dai registri delle tasse ottomani agli eventi storici più disparati (e non solo del passato) – e ne ha tirato fuori la gran parte dei suoi libri successivi.

Per esempio, nel 1967, ha pubblicato un libro sulla setta degli Assassini – The Assassins: A Radical Sect in Islam – che era proprio il proseguimento ideale del suo primo saggio sugli Ismailiti e che di quel primo saggio riprendeva molto del materiale archiviato negli anni successivi alla sua pubblicazione. Gli Assassini, infatti, sono storicamente i successori degli Ismailiti e gli antecedenti dei moderni terroristi islamici.

Insediatisi tra l’XI e il XIII secolo nelle zone centrali della Siria e sulle montagne del Libano, ma con un quartier generale nel cuore dall’Iran, hanno costituito il primo nucleo di opposizione armata dotato di tattiche terroristiche e strategie rivoluzionarie. Se ci si limita, come hanno fatto molti storici, al loro apporto (peraltro minimo) alle Crociate o ai rapporti con Saladino, non se ne coglie la vera natura terroristica.

Le somiglianze con la matrice contemporanea sono impressionanti e la loro scoperta si deve soprattutto alla scrupolosa ricerca di Lewis: il collegamento tra Iran e Siria, l’uso calcolato del terrore, l’autosacrificio dell’assassino inviato in missione, la certezza della ricompensa eterna e l’assoluta dedizione alla causa. L’unica differenza sostanziale è che gli Assassini non attaccavano gli “Occidentali” (al tempo dei Crociati le incursioni contro gli infedeli erano rare e motivate dall’esigenza di fare bottino), ma i musulmani.

Il loro obiettivo erano i governanti dell’Islam, uccisi quasi sempre con il pugnale. Sopravvivere a una missione, dopo averla portata a termine, era considerata una disgrazia, per cui si toglievano la vita con lo stesso pugnale. L’omicidio indiscriminato di vittime incolpevoli non era neppure considerato.

«L’Islam, al pari del Cristianesimo e del Giudaismo – scrive Lewis in Uno sguardo dal Medio Oriente – è una religione etica, e l’omicidio e il ricatto non trovano posto tra le loro credenze e pratiche».

Il che ci porta a sfatare almeno uno dei pregiudizi occidentali sull’Islam: il moderno terrorismo non è frutto del Corano, né di una tradizione storica propriamente islamica. Si direbbe piuttosto che è conseguenza di una “occidentalizzazione” deteriore del Medio Oriente.

L’idea che l’Occidente ha del Medio Oriente e dell’Islam è molto “costruita”: esotica, più che realistica. Si tende, per esempio, a identificare la “questione mediorientale” con il conflitto arabo-israeliano, che in verità non è che una delle “questioni”, e nemmeno la più distruttiva. Hanno fatto molti più morti i conflitti tra Iran e Iraq, la trascorsa Guerra del Golfo, le guerre civili in Libano, Iraq, Egitto e Libia.

In generale, la civiltà araba è una civiltà in lotta. Quello che manca è un’identità politica stabile e continuativa nel tempo. A parte le rare eccezioni dello Yemen e del Marocco, i Paesi arabi hanno identità e storie politiche molto frammentate: «Algeria e Tunisia sono creazioni ottomane – scrive Lewis – gli Stati della Mezzaluna Fertile sono stati intagliati dallo scalpello anglo-francese, la Libia è stata inventata dal Ministero per le Colonie italiano». Persino l’identità culturale, veicolata dalla lingua, non ha carattere unitario: l’arabo è un insieme di dialetti tra loro diversissimi.

Altro problema mediorientale è la cattiva amministrazione. Nazioni ricche di risorse sono indebitate e segnate da decenni di corruzione e mala gestione:

«L’Algeria era un tempo il granaio di Roma, e ora deve importare i cereali per il pane. È una terra di greggi e orti, e importa carne e frutta. È ricca di petrolio e gas, e ha un debito estero di venticinque miliardi di dollari e due milioni di disoccupati».

La tentazione dello storico, del politologo, di chiunque voglia trovare una soluzione al “problema Medio Oriente” è quella di applicare una ricetta, la ricetta “giusta”, dall’esterno. Ma come dice giustamente Bernard Lewis: «Il Medio Oriente deve trovare da solo la sua pace».

Affrontare la storia del Medio Oriente significa confrontarsi con mille realtà diverse, non con un corpo unico, come pensano molti opinionisti. E, soprattutto, significa fare e farsi domande scomode:

«Ci sono persone che pensano che studiare la storia del Medio Oriente sia diverso dallo studiare la storia di qualsiasi altra cultura, perché argomento più delicato. Io credo che questo sia un atteggiamento disonesto. Si studia la storia, punto. Qualsiasi storia. Nello stesso modo. Cioè onestamente. Trovo che l’origine greca della parola “storia” dica già tutto quello che deve essere detto: “imparare facendo domande”. Non esistono domande giuste o sbagliate. Ma è necessario avere il coraggio di fare tutte le domande che servono».

Il “tranello” della storiografia, in generale, è la tentazione alla legittimazione: si usa il passato per legittimare il presente. Gli studiosi monarchici usano la storia per legittimare la monarchia, e così pure i repubblicani, i colonialisti, i comunisti etc. ma anche gli anti-colonialisti, gli anti-comunisti etc. È un errore che si fonda sull’idea che la storia, come il passato, sia immutabile. Lo studio delle fonti ci dice il contrario: la storia è in continua metamorfosi, anche quella passata, vuoi per la scoperta di nuovi documenti, vuoi per il cambiamento delle prospettive attuali.

La storiografia del mondo arabo, poi, ha un problema in più: l’assoluta mancanza – o quasi – di fonti psico-biografiche sulle madri. Le madri, nella storiografia araba, dall’ottavo secolo in poi semplicemente non esistono. Vengono sostituite da oscure figure di concubine anonime. E questo rende la storia del Medio Oriente una storia per sua natura parziale: scritta da uomini, ad uso di uomini.

Uno dei capitoli più belli della storiografia contemporanea, quanto a intensità e vivacità di analisi, è lo scontro “ideologico” e metodologico tra lo storico palestinese-americano Edward Said e Bernard Lewis.

Uno scontro durato anni e nato nel 1978, quando Lewis pubblicò Orientalism e Said lo definì un libro con una “visione europeizzante del Medio Oriente”. La stessa parola “orientalism”, secondo Said, denotava un “intellettualismo politico che mira all’auto-affermazione, piuttosto che allo studio oggettivo di un fenomeno culturale”: insomma, una sorta di “razzismo e un mezzo di dominazione imperialista”, che considera la cultura araba come un monolite, privo di sfumature, di pluralità, di dinamiche interne e di una complessità storica.

Sono posizioni dure, motivate dal fatto che Said era uno storico convinto che soltanto uno studioso di origini arabe può comprendere la cultura araba; posizioni alle quali Lewis ha risposto negando qualsiasi deficit interpretativo degli studi occidentali sul Medio Oriente. Ha dichiarato, anzi, che l’orientalismo è figlio dell’Umanesimo europeo e, quindi, è indipendente da qualsiasi successiva espansione imperialista dell’Europa. Ha sottolineato come inglesi e francesi abbiano iniziato a studiare l’Oriente e l’Islam nel XVI e XVII secolo, ben prima di qualsiasi politica coloniale e imperialista.

«Non sono d’accordo – scrive Lewis in Uno sguardo dal Medio Oriente – con coloro che vorrebbero che a studiare la storia dell’Islam fossero soltanto storici musulmani, come a studiare quella degli Stati Uniti fossero solo gli americani. È una prospettiva limitata, che elimina a priori il confronto, la volontà di rendersi comprensibili, il dibattito, la pluralità delle voci».

È stato uno scontro senza mezzi termini, ma anche un capitolo molto importante del dibattito culturale Oriente-Occidente, perché spiega dall’interno quali sono i “muri” che devono essere abbattuti per comprendere veramente l’altro.

Nota al testo

Per avere un’idea più articolata di cosa sia il Medio Oriente, si consiglia la lettura dei due testi:

Per entrare nel vivo della discussione storiografica sul Medio Oriente, si rimanda all’articolo di Bernard Lewis The Question of Orientalism”, in The New York Review of Books, del 24 giugno 1982 – e alla risposta di Edward W. Said e Oleg Grabar, “Orientalism: An Exchange”, in The New York Review of Books, del 12 agosto 1982.

Si vedano anche le critiche di Edward Said allo scrittore Premio Nobel V.S. Naipaul, in merito al suo libro A way in the World and Beyond Belief, tacciato di neo-colonialismo.

Per una prospettiva storica dei rapporti tra Cristianesimo e Islam, si consiglia la lettura del testo di Jonathan Riley-Smith – docente di Storia ecclesiastica a Cambridge – Al seguito delle Crociate (Di Renzo, 2000).

Per una storia delle religioni, si consiglia Alfonso Maria Di Nola, Attraverso la storia delle religioni (Di Renzo, 1996).