Sono cresciuto in un’età di incredibile fermento mondiale: tra i tardi anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, gli Stati Uniti stavano attraversando un momento di grave depressione economica, quando lo spettro del nazismo si avvicinava all’Europa e tutti ne erano seriamente preoccupati, anche negli Stati Uniti.
Dove vivevo, la situazione era particolarmente problematica, poiché eravamo l’unica famiglia ebrea in un quartiere prevalentemente di cattolici irlandesi e tedeschi, per la gran parte antisemiti. Gli abitanti della zona in maggioranza si mostravano favorevoli al nazismo e, in effetti, gli Stati Uniti in quegli anni erano nel complesso molto filofascisti.
Mussolini era assai ammirato, sia dalla sinistra che dalla destra; Roosevelt lo chiamò “quell’ammirevole gentleman italiano”, e non dispiaceva neppure alla sinistra perché stava realizzando infrastrutture e servizi, sicché la sua popolarità durò fino alla metà degli anni Trenta, quando la situazione in Etiopia e altri eventi lo legarono sempre più alla Germania e a Hitler.
Quando quest’ultimo andò al potere divenendo Cancelliere, gli investimenti statunitensi si spostarono nettamente verso la Germania; e ancora nel 1937 il Dipartimento di Stato lo descriveva come un moderato che si frapponeva tra i due estremi della destra e della sinistra, rappresentando un baluardo nei confronti delle forze rivoluzionarie, perciò si riteneva importante mantenere i rapporti con lui.
Queste erano le opinioni prima dell’Olocausto, quando il nazismo aveva un’altra connotazione e, analogamente al fascismo, godeva di un significativo consenso da parte del popolo e dell’élite, come accadeva del resto, in luoghi diversi e con motivazioni differenti, per il comunismo sovietico.
Non è stato facile crescere in quell’ambiente e con tali pressioni. Se i miei genitori erano normali democratici rooseveltiani, gli altri membri della mia grande famiglia erano molto attivi in politica, facendo parte della classe operaia, perlopiù disoccupati, con un minimo livello di scolarità, ma con una notevole, vivace cultura, associata soprattutto alle diverse tendenze del pensiero della sinistra.
Alcuni erano iscritti al Partito Comunista, altri erano militanti anticomunisti, pur essendo di sinistra, altri ancora democratici rooseveltiani: un aggregato insomma che andava dai liberali di sinistra alla sinistra antibolscevica. Allora una tale varietà di affiliazioni politiche non era rara tra gli emigrati dall’Europa orientale, e io credo di aver tratto un indubbio beneficio dal contatto con una gamma così vasta di opinioni.
A ciò si aggiunga che sono cresciuto nella città di Philadelphia, dove, tra le altre correnti, l’influenza dei quaccheri agiva ancora fortemente. In quegli anni di depressione, tra i miei ricordi di infanzia ci sono immagini di persone che bussavano alla porta cercando di vendere stracci o mele, o di donne in sciopero, e della polizia antisommossa che picchiava i manifestanti.