Bernard Lewis, il grande orientalista. Un ricordo di Sante Di Renzo

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Il 31 maggio 2018 avrebbe compiuto 102 anni, Bernard Lewis, lo storico e orientalista inglese (naturalizzato americano nel 1982) si è spento ieri nel New Jersey. Sante Di Renzo ci ha voluto raccontare di quando lo conobbe e lo intervistò per la stesura del libro Uno sguardo al Medio Oriente.

Fra i tanti che ho intervistato per la Collana “I Dialoghi”, Bernard è stato l’autore con il quale si è creato il legame più saldo e duraturo. L’ho incontrato la prima volta alla Princeton University, dove insegnava da emerito di Near Eastern Studies. Era il 1999.

È sempre stato un uomo autorevole, ma incline al sorriso. Si disse sorpreso dal fatto che avessi affrontato un così lungo viaggio solo per intervistarlo, ma questa è una caratteristica che ho notato in tutti gli anglosassoni: non sono vanagloriosi, non si beano dei propri successi, non si aspettano le congratulazioni.

Credo per gratitudine verso il mio interesse, mi concesse ben due giornate complete di intervista: in realtà, bastò molto meno tempo, ma la restante parte la spendemmo in conversazioni amichevoli e in libere divagazioni culturali sulla sua vita, il Medio Oriente, la vita accademica di Princeton, l’Italia, la musica lirica… Conosceva un gran numero di arie che ogni tanto provava a canticchiare a bassa voce, come se si concedesse un breve intervallo.

Mi confidò che la passione per l’Opera gli derivava dal padre, che da cantante autodidatta improvvisava spesso motivi operistici. Abbiamo discusso a lungo dell’importanza delle lingue (ne conosceva un bel po’), l’apprendimento delle quali per uno storico – secondo Bernard – non è una mera velleità, ma una necessità: per chi studia la storia di una cultura diversa da quella di appartenenza, la traduzione è tutto, perché la lingua interpreta il mondo.

Mi raccontò che, quando era ragazzo, si divertiva – viaggiando – a cercare di capire cosa dicessero i cartelli esposti in varie lingue sui treni, comparandone le scritte. Era rimasto colpito da un fatto: in inglese, francese e tedesco era espressamente “vietato” sporgersi dai finestrini del treno; in italiano, invece, l’avviso dichiarava soltanto “è pericoloso sporgersi”. Il che – secondo Lewis – implicava un differente rapporto con la responsabilità individuale che, a voler approfondire, spiegava anche il differente rapporto con le regole e la legge in questi Paesi.

Bernard fu talmente “maniaco” delle lingue, che nel 1974 pubblicò una storia dell’Islam in due volumi, i cui passi arabi citati sono stati tradotti direttamente da lui (perché le traduzioni esistenti, dice, differivano talmente una dall’altra che si sarebbe potuta scrivere un’altra monografia). Per due giorni mi parlò del Medio Oriente con la stessa naturalezza con cui si parla di casa propria. Per me è stata un’esperienza molto intensa e rivelatoria: come scoprire una porzione di mondo ancora sconosciuta. È incredibile di quanti pregiudizi si alimenti l’informazione sul mondo arabo. L’idea che l’Occidente ha del Medio Oriente e dell’Islam è molto “costruita” e per farmelo capire Bernard mi raccontò questo aneddoto:

«Nel 1961 ho pubblicato un libro su The Emergence of Modern Turkey; l’editore francese che lo ha tradotto nel 1988 lo ha intitolato, invece, Islam et Laicité: la Naissance de la Turquie Moderne. Quando ne chiesi la ragione, mi sentii rispondere: “L’Islam se vend, la Turquie ne se vend pas”. Ecco, questo secondo me, la dice lunga sull’idea di Medio Oriente nel mondo occidentale. Innanzitutto, per l’europeo, la Turchia non è Islam! E non è sufficientemente esotica». Bernard è considerato lo storico più autorevole – degli ultimi quarant’anni – di Medio Oriente, Islam e Impero Ottomano; ha curato la Cambridge History of Islam (un’istituzione, in materia) e ha pubblicato il primo libro nel 1940 (The Origins of Ismailism, con una tiratura di 500 copie!), mentre la sua ultima fatica è datata 2012.

Malgrado la sua competenza e autorevolezza in materia, non sono comunque mancate – nell’arco della sua carriera accademica – le critiche e le invidie, tanto più che Bernard non è il tipo che prende posizioni accomodanti. Tutt’altro. Negli anni ’90 è stato coinvolto in un processo, per esito del quale un tribunale francese lo condannò a pagare un’ammenda simbolica di un franco, per aver “negato” il genocidio degli armeni. In verità, la posizione di Lewis – in proposito – è sempre stata molto più complessa e articolata. Nel 1985, firmò una petizione al Congresso degli Stati Uniti per condannare il genocidio, e ciò dovrebbe testimoniare del suo riconoscimento dell’accaduto.

La posizione espressa otto anni dopo, in un’intervista a Le Monde (dalla quale nacque il processo), partiva invece dalla considerazione che quello perpetrato dai Giovani Turchi ai danni degli armeni poteva definirsi “massacro”, ma non “genocidio”, perché non se ne poteva dimostrare con fonti storiche certe e incontrovertibili la volontà politica di sterminio della razza armena. Si sarebbe trattato piuttosto di una “guerra” etnica. Secondo Lewis: «Genocidio è la versione armena della storia» (questa la frase per la quale è stato condannato dal tribunale francese).

Lungi dal voler negare gravità e portata del massacro, Lewis si chiarì nel 2002, dinanzi all’Assembly of Turkish American Association: «Ci sono stati massacri terribili, in numero incerto ma prossimo al milione… ma il punto non è se i massacri siano avvenuti o meno, ma se tali massacri siano il risultato di una decisione deliberata e programmata del governo turco per eliminare una razza o un contendente politico».

Molti, storici e politologi, videro in questo voler “discriminare” un cambiamento di opinione dettato da ragioni di utilità personale e politica ma, in tutta onestà, il Bernard Lewis che ho conosciuto io mi è sembrato un uomo coerente con la propria storia e le proprie idee, non una bandiera al vento. Sono più propenso a credere che, per quanto scomodo, abbia amato dare alle cose il nome giusto. Credo anche che Lewis sia stata una figura molto più complessa del bianco o nero.

Gli sono state addebitate posizioni filo-israeliane, che secondo voci critiche avrebbero motivato la sua adesione ideologica alla guerra in Iraq (taluni lo definiscono persino il teorico di quella guerra condotta in nome della “modernizzazione”, perché George W. Bush si è avvalso dei suoi consigli per molte delle missioni americane in Medio Oriente), ma si dimentica che proprio lui, ebreo di nascita, definì lo Stato sionista uno Stato “razzista”.

Ha assunto posizioni molto critiche contro l’islamismo contemporaneo, ma non certo per le sue origini ebraiche – che anzi lo hanno portato a scrivere un libro, Semiti e antisemiti, molto equilibrato sull’argomento. Le sue critiche invece si fondano sull’assunto che l’Islam contemporaneo sia malato della stessa “arroganza culturale” che ne ha causato il declino nell’XI secolo.

Ha assunto posizioni allarmiste sull’Iran, al tempo delle dichiarazioni di Amhadinejad (ma chi non ne sarebbe stato allarmato?), come ne assunse nel 1998 – con largo anticipo sugli eventi – nei confronti di Bin Laden, che Lewis definì “un pericolo per l’Occidente” e “l’ideologo della jihad”, dopo averne letto una dichiarazione dai toni anti-americani e belligeranti sul giornale londinese Al-Quds Al-Arabi (e all’epoca Bin Laden era un “emissario” degli americani in Sudan e Afghanistan).

Chiunque voglia rintracciare in questo un atteggiamento da imperialista americano o da sionista (il riferimento è a certe critiche velenose dello storico palestinese Edward Said), sta facendo un’opera anti-storica, oltre che disonesta. I fatti hanno ampiamente confermato e avvalorato le parole di Lewis. Peraltro, in merito alle missioni statunitensi di “democratizzazione” del Medio Oriente, Bernard si è espresso con voce più volte contraria: «Ci sono cose che non si possono imporre. La libertà, per esempio. O la democrazia.

La democrazia è una medicina molto forte che va somministrata al paziente in piccole dosi, gradualmente crescenti. Altrimenti si rischia di uccidere il paziente. Ed è quello che i musulmani dovrebbero fare con loro stessi» (da un’intervista al Jerusalem Post del 24 febbraio 2015).

Certo, talvolta Lewis ha cambiato la sua visione delle cose nell’arco di una così lunga vita (e sarebbe stato preoccupante il contrario), ma coerentemente con il fatto che anche gli eventi cambiano: ricordo che mi ha raccontato della sua gioventù (era un marxista convinto e avrebbe dovuto fare l’avvocato, tant’è che i suoi primi studi sono stati in legge), ma anche di quanto a malincuore abbia abbandonato il marxismo, perché non poteva sposarne la deriva “terzo-mondista” dei democratici americani. La gran parte di queste considerazioni, che ci hanno tenuti impegnati per due giorni, sono state raccolte nel suo libro Uno sguardo dal Medio Oriente.

Quello che ne è rimasto fuori, invece, è la sensazione forte, in un certo senso “magica”, di trovarmi davanti a una persona “profetica”, oltre che estremamente intelligente. O, forse, profetica proprio perché molto intelligente e dunque capace di lungimiranza. Nel libro frutto del nostro colloquio e uscito nel 1999, già “leggeva” con chiarezza in che direzione si sarebbe mosso il rapporto tra Oriente e Occidente: «Senza difficoltà, possono essere elencati numerosi altri problemi già in fase acuta, o che stanno per diventarlo: la sovrappopolazione, che sta provocando emigrazioni e forse, in un dato momento, porterà a uno scontro con l’Europa; un calo del prezzo del petrolio e forse, a un certo punto, persino la fine dell’era del petrolio nella storia dell’umanità».

E ancora: «Questa è un’epoca in cui non assistiamo a una rivalutazione dei valori, come la chiamò Nietzsche, ma a una loro svalorizzazione, dove i vecchi valori sono screditati e i nuovi, offerti al loro posto, non vengono capiti né accettati. Il risultato è una frammentazione sociale, spesso una fuga dalla realtà, e una serie di cambiamenti politici culminanti, prima piuttosto che dopo, nella caratteristica combinazione di tirannia e terrore». A Bernard devo altri “incontri” editoriali importanti.

Ci siamo rivisti più volte, in America e anche in Italia, a Napoli, a Roma e una volta anche a Castel Gandolfo, in una residenza vaticana dove lui era ospite, insieme ad altri esperti di religioni, in veste di consulente per una serie di incontri sullo sviluppo della religione del terzo millennio. In quell’occasione, incontrai anche lo storico del Cristianesimo Jaroslav Pelikan – con il quale era già stato pubblicato il nostro libro dialogo: Continuità e cambiamento della fede (Di Renzo, 2000). È stato una conversazione a tre per me molto stimolante, perché incentrata su argomenti religiosi ai quali non ero avvezzo. A Princeton, mentre pranzavamo in un ristorante insieme con lui, mi fece conoscere la scrittrice Toni Morrison, Premio Nobel per la Letteratura, alla quale chiesi di partecipare alla collana “I Dialoghi” ma, malgrado le numerose trattative avute anche successivamente, non sono riuscito a conquistare la sua adesione.

A lui devo anche il contatto con un altro storico dell’Islam, Sadik Al-Azm, che ho raggiunto e intervistato a Damasco, per il libro L’illuminismo islamico (Di Renzo, 2001). Me lo ha fatto conoscere apposta, perché – diceva – così avrei avuto due prospettive diverse dello stesso mistero: il Medio Oriente. Perché è così che Bernard intendeva la storia, secondo la sua antica etimologia greca: “imparare facendo domande” su qualcosa che non si conosce ancora. Come un grande e generoso gesto di curiosità.

Di Sante Di Renzo