Viaggiatore per caso: dal Piemonte alle Filippine

Guido Nicosia, ambasciatore e autore di Diplomatico per caso, racconta le sue avventure di viaggiatore per caso. Dai luoghi dell’infanzia, in un’Italia ancora ferita dalla guerra, al Sudan e alle Filippine delle missioni diplomatiche.

Quella della mia infanzia era un’Italia povera, da poco uscita dalla guerra, e il mio panorama non era ancora quel mondo di cui conoscevo più la storia che la geografia. In realtà, fino ad allora, non avevo maturato alcuna esperienza oltre i confini della cittadina piemontese in cui sono cresciuto. La prima grande città che ho visto è stata Torino, piovosa e triste e ancora devastata dalla guerra.

La vera avventura, all’estero è stata la gita scolastica a Lugano e, qualche anno dopo, la visita a Parigi, che per l’intellettuale che pensavo di essere – appena conseguita la maturità classica – era allora l’unica fonte di cultura. Della letteratura anglosassone conoscevo soltanto P.G. Wodehouse e Oscar Wilde.

Poi, nel 1956, è stato il momento del viaggio di “iniziazione” come corriere diplomatico, destinazione: Praga e Bucarest. Lo ricordo ancora, un viaggio lungo, in treno, accompagnato da un usciere degli Esteri, dove avevo cominciato a lavorare come semplice impiegato d’ordine. L’usciere dormiva appoggiato alla bolgetta, un sacco di tela grigia che conteneva la posta destinata alle due ambasciate e credo che, nascosto tra le missive, tenesse anche qualche pacchetto di vivande, come l’olfatto faceva intendere.

Di Praga rammento il cimitero ebraico e gli scaffali vuoti del negozio dove acquistai un vassoio di cristallo per mia madre. Di Bucarest, città all’epoca molto povera, mi sorprese il numero di campi da tennis, visto che in Italia era considerato un gioco per ricchi.

Nel 1959, entrai in Carriera (diplomatica) e poco dopo raggiunsi in aereo Manila, capitale delle Filippine: la mia destinazione d’esordio.

Manila
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Non avevo mai volato e lo feci in prima classe, circondato da hostess sorridenti che non si stancavano di offrirmi sigari e liquori. Dal finestrino vidi scorrere più Paesi di quanti ne avessi studiati al liceo: il Mediterraneo era azzurro, l’Egitto giallo e a Bombay sentii per la prima volta la fragranza amara della natura in decomposizione. Sulla spiaggia, al fuoco di una pira, un santone mi predisse che sarei morto a 40 anni, che allora in India doveva essere una bella età. Passai Singapore, che somigliava a una cittadina vittoriana, e poi Hong Kong, ch’era tutta un giardino e si mostrava tale e quale alla città ripresa nel film L’amore è una cosa meravigliosa, appena uscito nei cinema. Le centinaia di villaggi della rada più bella del mondo – tra Victoria e Kowloon – non formavano ancora un unico agglomerato urbano, Aberdeen era soltanto un villaggio di pescatori, e il battello che li attraversava mi pareva il setting ideale per un amore romantico.

A Manila, che raggiunsi il giorno dopo, ho scoperto la violenza, l’ingiustizia e quella fame che da noi s’era ormai dimenticata e che comunque, anche durante la guerra, non aveva mai cancellato la dignità. Lì era diverso: l’uso spregiudicato delle armi personali, l’arroganza e l’impunità dei ricchi, la rassegnazione dei poveri che vivevano nelle e delle immondizie, la prostituzione in tutte le sue forme e il formalismo della Chiesa cattolica, che permetteva tutto questo.

Ancora oggi, con i suoi 32.000 abitanti per chilometro quadrato (due volte la densità abitativa di New York), che la rendono la città più popolosa del mondo, Manila è un luogo inospitale e violento.

Dalle Filippine ho appreso la forza della natura, da noi sopita: le piante voraci, la verzura che s’arrampica sulle pareti delle case fino a nasconderle e soffocarle, le piogge monsoniche che sommergono le città (la stagione migliore per visitare le Filippine è quella secca: da novembre ad aprile), i tornado che si portano via i tetti di lamiera, la pervicacia e l’indistruttibilità degli insetti e, appena oltre la città, il dilagare della giungla, popolata non dai Thug di Salgari ma dai guerriglieri maoisti.

Le spiagge, le isole e il mare hanno una potenza cromatica e solitaria. Con più di 7000 isole e atolli, le Filippine rappresentano un patrimonio paesaggistico di inestimabile bellezza. Palawan – con il vicino arcipelago di Bacuit – situata tra il Mar Cinese meridionale e il Mare di Sulu, è piena di rocce carsiche, scogliere calcaree e barriere coralline. Per due anni consecutivi è stata eletta dai turisti di tutto il mondo “regina dei mari”, l’isola più bella del mondo.

Due siti di Palawan sono stati dichiarati patrimonio Unesco dell’umanità: il parco marino del Tubbataha Reef, con i suoi atolli corallini (paradiso dello snorkeling), e il fiume sotterraneo di Puerto Princesa, il più lungo e navigabile del mondo. L’entroterra è ancora selvaggio, ricco di foreste tropicali, fiumi e montagne.

La seconda isola più bella al mondo è sempre nelle Filippine. Si chiama Boracay ed è oggi meta esclusiva del turismo internazionale, con le sue spiagge bianche e resort di lusso. Meno frequentata, ma altrettanto bella, l’isola di Camiguin, coperta di foreste pluviali, lingue di sabbia bianca in un mare color turchese, ricca di fonti termali e cascate, con ben 7 vulcani ancora attivi.

Caratteristica ma non turistica, l’isola di Bohol è famosa per le sue Chocolate Hills (colline di cioccolato): più di mille piantagioni su altrettante collinette rotondeggianti.

Terrazzamenti di BanaueIo però, all’epoca del mio primo incarico, non vidi esotismo in tutto quello che mi circondava e della natura mi impressionò soltanto quella lavorata dall’uomo, con le terrazze di riso. Le risaie di Banaue, create più di 2000 anni fa, sono anch’esse patrimonio Unesco. Le terrazze sono state costruite dall’antica popolazione degli Ifugao, cacciatori di teste, molto abili nella lavorazione del legno. Si trovano nella regione di North Luzon, nelle Filippine settentrionali.

Non ho amato le Filippine, malgrado la bellezza dei luoghi, che però amplifica e sottolinea la povertà degli abitanti. Ai miei occhi era e resta una terra violentata tre volte, da una storia impersonata ora dagli spagnoli, ora dagli americani, ora dalla Chiesa cattolica, che ne hanno fatto nei secoli un corpo estraneo al suo stesso continente.