Guido Nicosia, ambasciatore e autore di Diplomatico per caso (Di Renzo, 2016), racconta le sue avventure di viaggiatore per caso. Dai luoghi dell’infanzia, in un’Italia ancora ferita dalla guerra, al Sudan e alle Filippine delle missioni diplomatiche. Ma anche il ricordo di luoghi che, oggi, non esistono più.
Durante gli anni del mio incarico nelle Filippine, ho potuto fare viaggi che ormai non è più possibile fare: con una nave cargo. Sogno di ogni esploratore, senza meta e senza legami, viaggiare su una nave merci è un’esperienza a metà tra quella del marinaio e quella dell’avventuriero.
All’epoca non c’erano ancora le orribili portacontainer o le piattaforme per il trasporto del petrolio che si vedono all’ancora dei porti industriali. Erano cargo misti: normali navi da trasporto, di stazza media, che mettevano a disposizione di eventuali passeggeri tre o quattro cabine doppie.
Naturalmente bisognava essere disposti a viaggiare senza l’assillo del tempo, giacché quel tipo di nave – per sua natura – dovendo seguire le indicazioni degli spedizionieri, soggette a cambiamenti improvvisi, poteva cambiare rotta, annullare alcune tappe, aggiungerne altre, prolungare o accorciare la permanenza nei porti (sempre molto costosa).
Il biglietto costava poco, si usufruiva di buone cabine e si pranzava alla tavola del capitano, ch’era sempre generosa.
Una soluzione ideale per persone giovani, senza precisi impegni di lavoro, che – se l’avessi saputo prima – mi avrebbe permesso di conoscere il mondo senza bisogno di entrare in diplomazia!
Fresco di prime nozze, m’imbarcai su una motonave del Lloyd Triestino, manovrata da un simpatico istriano, che ci insegnò anche lo scopone a tre carte, che poi perfezionai con mio padre.
Partimmo da San Ferdinando, un porto nel Nord delle Filippine che si raggiungeva da Manila, dopo un lungo e complesso viaggio in treno – naturalmente a vapore – costeggiando la giungla, allora abitata dai guerrieri maoisti ma anche da tribù piuttosto misteriose, una delle quali (quella degli Igoroti) aveva fama di essere dedita al taglio delle teste, sembra al fine di superare un rito di maturità sessuale (come mi spiegò al ritorno in treno un igoroto ormai incivilito, che di professione faceva il funzionario statale e probabilmente aveva già superato la fase della maturazione sessuale, avendo con sé moglie e figli).
La motonave del Lloyd Triestino fece un primo scalo di quattro giorni a Hong Kong, ch’era ben altra cosa da quell’infinito agglomerato urbano e industriale che oggi si estende fin quasi a coprire il Peak, come veniva chiamata la verde collina popolata soltanto da poche ville di favolosi ricconi e da qualche tempio.
Non a caso, l’isola era stata scelta come setting per uno dei più romantici polpettoni del momento: “L’amore è una cosa meravigliosa”, delicata storia tra un corrispondente americano chiamato a seguire gli eventi della guerra in Corea e una dottoressa euroasiatica.
Attualmente, Hong Kong è ancora una meta interessante per lo shopping e per ammirare la capacità di lavoro e la fantasia dei cinesi (che è irraggiungibile), ma non certamente per il romanticismo, l’avventura, la piacevolezza della vita e le curiosità – anche crudeli – di un mondo scomparso. Non credo ci siano ancora ristoranti dove si serve, su ordinazione, il cervello di scimmia viva, con lo chef che sulla tavola del cliente poggia la povera creatura, incastrata in una specie di forca, e la scalpella.
La parte industriale della città, che già allora esisteva, si prolungava in una deliziosa linea costiera fatta di villaggi flottanti, porticcioli, insenature e tanta natura. Il leggendario albergo Peninsula era rinfrescato solo da grandi e silenziosi ventilatori a pale e lambiva il mare, che in seguito è stato allontanato con una colossale opera di recupero del terreno che a Hong Kong (come a Singapore, dove i terreni di bonifica sono ormai il 20%) è prezioso come l’oro.
Il Peninsula era molto più di un albergo: era una tappa obbligata per i grandi viaggiatori, per i funzionari coloniali britannici che s’erano arricchiti con l’Impero. Insieme al Raffles di Singapore, all’epoca in legno, al Taj Mahal di Bombay – dove la preziosa parte in legno esiste ancora – e allo Strand di Rangoon, c’erano anche altri alberghi – sedi distaccate di un club esclusivo di visitatori – favolosi non per le dimensioni, ma per lo charme, come quelli di Colombo, Karachi e Giacarta.
La seconda tappa, dopo due giorni di viaggio, fu Keelung: al tempo un porticciolo di poco a Nord di Taipei, alla quale oggi è praticamente congiunto. Taiwan era, e da più di 10 anni, un artifizio diplomatico intessuto dell’ipocrisia più ardita; tale rimase per altri 10 anni, fino a quando – nel 1972 – gli americani decisero di riconoscere la Cina comunista, che già contava un quarto dell’umanità.
L’artifizio, che solo l’arroganza dei vincitori poteva permettersi, era di considerare illegale e quindi inesistente il governo di Pechino e di considerare, invece, la poco popolata isola di Taiwan l’unico rappresentante della Cina. Ciliegina sulla torta diplomatica era che la capitale di Taiwan sarebbe stata in verità Nanchino (ex-capitale della Cina orientale ma da 25 anni anch’essa in mano ai comunisti), mentre Taipei era da considerarsi una scelta provvisoria, dettata dal fatto che nel 1949 vi si era trasferito Chiang Kai-shek, insieme al tesoro di Stato, alle opere d’arte più preziose e a quel che rimaneva di un esercito che, malgrado gli aiuti americani, era stato sconfitto dalle armate di Mao.
Chang Kai-shek continuò a mantenere il potere su Taiwan per più di 20 anni, anche grazie alle entrature americane, in parte sentimentali, della moglie Song Meiling, una delle tre figlie di Charlie Soong (metodista, banchiere e fiduciario degli americani). Tutte e tre le figlie erano belle, ricche e longeve, con una vita da romanzo: la prima era andata in moglie al super finanziere cinese H.H. Kung; la seconda aveva sposato il padre della repubblica Sun Yat-sen (e, rimasta comunista, fu poi nominata presidente onorario negli anni ’80); la terza divenne sposa di Chiang Kai-shek, che aveva ereditato il Kuomintang (il partito repubblicano) e fu internazionalmente riconosciuto come Presidente della Cina fino al 1972, prima di essere declassato a dittatore di Taiwan, lasciando alla sua morte il comando al figlio, che solo un decennio dopo avviò quel processo democratico che avrebbe fatto di Taiwan una delle quattro tigri asiatiche (attualmente la 27esima economia del mondo).
Dell’isola, giustamente chiamata Formosa dagli spagnoli perché dotata di una splendida vegetazione, posso dire che mi apparve bellissima dalla tolda del Cargo, dove restammo ad ammirare le insenature, il porto dei pescatori e le canoe Tao (barche tradizionali colorate, dalla forma ovale e con la prua alta), dato che non ci fu concesso di sbarcare per via di un’epidemia in corso.
Il giorno dopo eravamo di fronte al porto di Pusan, che apparentemente non mostrava i segni della guerra di Corea, conclusasi dieci anni prima con milioni di morti, del Sud come del Nord, e cinquantamila soldati americani uccisi (primo episodio cruento di una guerra fredda non ancora finita).
Funzionari locali, sapendo della nostra epidemia, portarono a bordo recipienti di latta in cui ci chiesero di depositare campioni dei nostri escrementi. Il giorno dopo ci dissero che, per precauzione sanitaria, non avremmo potuto scendere.
Quella notte assistetti per la prima volta all’incredibile spettacolo della fosforescenza marina; spettacolo che ai miei occhi si ripeté, solo vent’anni dopo, in Costarica: la linea costiera leggermente agitata e i bagnasciuga con le barche da pesca ancorate erano sagomati dal tremolante segno della bioluminescenza del plancton, che quando in eccesso crea questo fenomeno.
Dopo altri due giorni di navigazione giungemmo in Giappone, accolti da una nave sanitaria che caricò a bordo eleganti gabinetti di plastica pregandoci di restituirli con le nostri feci, che furono finalmente trovate in ordine, permettendoci così di ancorare alla banchina.
Cominciò quel giorno, del giugno 1963, la mia scoperta del Giappone: a partire dal porto di Kobe, dove il cargo si fermò per una decina di giorni. Un Giappone ancora antico ma in via di trasformazione, perché si preparava a ospitare i Giochi Olimpici del 1964.