Guido Nicosia, ambasciatore e autore di Diplomatico per caso (Di Renzo, 2016), racconta le sue avventure di viaggiatore per caso. Dai luoghi dell’infanzia, in un’Italia ancora ferita dalla guerra, al Sudan e alle Filippine delle missioni diplomatiche. Ma anche il ricordo di luoghi che, oggi, non esistono più.
Il Giappone, al quale sono approdato nel 1963, si era appena rialzato dalla Guerra e si preparava alle Olimpiadi dell’anno successivo.
Di Kobe ricordo la famosa e costosa bistecca, ottenuta da bovini nutriti di birra e massaggiati quotidianamente. Era indubbiamente buona, ma a dire il vero le raffinatezze nipponiche non mi hanno mai convinto; giudico anzi la cucina tradizionale del Giappone poco interessante, con le sole eccezioni della tempura – alimento di Quaresima introdotto dai gesuiti, in gran parte italiani – e dei pesci crudi meno reclamizzati ma piuttosto comuni sulle coste del Pacifico, anche in Perù. Delle pietanze giapponesi apprezzavo l’aspetto visivo: la presentazione, le riproduzioni in ceramica dei piatti del menù esposte in vetrina, le portate sempre identiche fino all’ultimo grano di riso che i camerieri mettevano in tavola.
Sempre a Kobe ho preso uno dei famosi treni giapponesi, già allora veloci e affollati. Per salire c’era bisogno dell’aiuto di robusti spalloni. Quel che colpiva, malgrado il forte affollamento, era l’assoluto silenzio, nonché l’ordine che vi regnava. I giapponesi, alla mattina presto, sembravano piuttosto assonnati e molti dormivano seduti con le gambe ripiegate sotto le cosce; posizione impossibile per gli arti occidentali.
Le strade erano un fluire continuo di persone: sempre affollate ma con una circolazione assai ordinata. Tantissimi i bambini, che davano l’impressione di muoversi a gruppi, ognuno al seguito di una guida. Silenziose le donne, che con i figli sulle spalle e gesti ripetitivi giocavano ai pachinko, il locale gioco d’azzardo simile alle nostre slot machine, uno dei primi regali degli americani vincitori.
Il Giappone era già allora un paese sovrappopolato, anche se molta parte dei suoi abitanti viveva ancora nelle campagne; come d’altronde in Italia, che in quegli anni iniziava appena la sua urbanizzazione.
Ho acquistato alcune stampe di Hiroshige e Hokusai che ritraevano paesaggi favolosi di un Giappone che spero sia realmente esistito.
A Osaka ho visitato il celebre castello, al tempo fornito di un ascensore modernissimo e di illuminazione al neon, che scandalizzarono non poco il mio senso estetico.
Kyoto era bella, ma Nara lo era ancor di più. Preservata da ogni contaminazione della vita moderna e conservata in tutto il suo fascino antico, Nara è famosa per i suoi cervi, che girano liberamente nei parchi senza timore dell’uomo, e per i suoi templi; anche se questi ultimi erano piuttosto ripetitivi nello stile e non così antichi, dato che i singoli tronchi di cui sono composti vengono rinnovati ogni 200 anni.
Quasi tutte le città giapponesi conservavano, all’epoca, l’antica struttura urbana, anche Tokio, che si estendeva ancora in orizzontale, piuttosto che in verticale. Si notavano, però, già molti cantieri e lavori in corso: autostrade, stazioni, stadi e tunnel, che l’anno successivo sarebbero stati inaugurati con le Olimpiadi; evento che probabilmente, dopo la Guerra e la bomba atomica, avrebbe dato il definitivo colpo di grazia al vecchio Giappone.
Tokio era allora una città infinita di costruzioni basse, che sembravano fatte di legno leggero e di carta, le stesse descritte dal grande scrittore Natsume Sōseki ai primi del ’900. Qualche sporadica costruzione imponente si ergeva soltanto nelle periferie industriali e nel centro città, come il Palazzo dell’Imperatore, di fronte al quale stava in rispettoso omaggio una fila di grandi alberi torturati fino ad assumere la posizione dell’inchino rituale.
In questa città infinita non c’erano numeri civici – usanza che ritrovai in Costarica vent’anni dopo – e i tassisti dovevano essere muniti di un foglietto con spiegazioni dettagliate, per giungere a destinazione.
Ripartii da Kobe dieci giorni più tardi, avido di cibo casareccio, con un cargo misto del Lloyd Triestino, che mi sbarcò in una piccola lancia nel porto di San Ferdinando, da dove tornai in treno a Manila.