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Attacco o difesa: qual è la migliore strategia contro il riscaldamento globale?

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È stato pubblicato qualche tempo fa l’elenco dei paesi nel mondo che stanno facendo qualcosa di concreto per contribuire alla conservazione del pianeta e per combattere e frenare i cambiamenti climatici. Si tratta di una voce all’interno del Good Country Index, un indice che misura l’impatto di ogni singolo paese sul resto del mondo, analizzandone i contributi in termini di scienza e tecnologia, cultura, pace e sicurezza internazionale, ordine mondiale, prosperità ed eguaglianza, salute e benessere e, appunto, pianeta e clima.

La cima della classifica di quest’anno è dominata dall’Europa: al primo posto la Norvegia, che ha il più alto numero di auto elettriche circolanti. Seguono, nell’ordine, Svizzera, Portogallo, Slovenia, Cipro, Finlandia, Svezia, Germania, Croazia e Repubblica Slovacca. È particolarmente interessante notare che non si tratta dei soliti evoluti e progressisti paesi nordici. Al terzo posto, ad esempio, c’è il Portogallo, che sta mettendo a disposizione dei suoi cittadini incentivi per passare all’energia solare.

E in posizioni elevate ci sono anche Uruguay e Kenya. Il primo è ormai leader dell’America Latina nel campo delle energie rinnovabili. Il secondo ha una quotidiana esperienza dell’impatto dei cambiamenti climatici sulla vita dei propri abitanti ed ha lanciato un programma nazionale per una riduzione del 30% delle emissioni di gas serra entro il 2030.

Altri paesi, invece, hanno scelto – per ragioni economiche, ovviamente – di rinunciare a qualsiasi forma di protezione del nostro pianeta, nonostante siano tra i primi a pagarne lo scotto. Parliamo degli Stati Uniti, naturalmente, uno dei pochi paesi al mondo a non avere aderito all’accordo sul clima di Parigi, che si impegna a ridurre nel lungo periodo la temperatura media globale al di sotto della soglia di 2°C per ridurre in maniera sostanziale i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici.

Il presidente Trump ha annunciato, già in campagna elettorale, di non avere alcuna intenzione di sottoscrivere accordi sul clima, né tantomeno di rispettare quelli già firmati dal suo predecessore Barak Obama. Forse ha dimenticato che Katrina è costato al paese oltre 100 miliardi di dollari di danni, ha distrutto piattaforme petrolifere, ha impedito le esportazioni di grano per mancanza di infrastrutture, ha lasciato gli abitanti di New Orleans senza casa e senza lavoro. Per non parlare dei quasi 1600 morti.

Una città che combatte il riscaldamento globale

Sembra naturale allora che negli Stati Uniti non si faccia la classifica dei luoghi più “planet-friendly” ma di quelli più “climate-proof”: un curioso primato che spetta alla cittadina di Duluth nel Minnesota. Se l’ovest brucia, l’est straripa e il sud boccheggia, è naturale che gli americani siano alla ricerca di un luogo in cui stare al sicuro da incendi, inondazioni, terremoti ed uragani.

Duluth è la città degli Stati Uniti che ha messo il clima tra le motivazioni per decidere di trasferircisi. Non che sia immune ai cambiamenti – le precipitazioni sono comunque in aumento rispetto alle medie del passato – ma secondo le proiezioni sul clima a lungo termine, è il luogo degli Stati Uniti in cui potranno essere meglio gestiti. Trattandosi di una cittadina fredda, nonostante gli aumenti, la temperatura resterà relativamente fresca, con un massimo di 25 gradi nel 2080 ed il rischio di incendi resterà quindi relativamente basso. La città si trova inoltre nell’entroterra, nella regione dei Grandi Laghi: è quindi naturalmente protetta dai rischi derivanti dall’aumento del livello del mare e dispone di riserve di acqua.

Ma ciò che rende Duluth la città ideale in cui rifugiarsi è che ha già predisposto un piano anti-clima, al momento in fase di valutazione da parte del Sindaco e del consiglio comunale. Uno studio commissionato all’Università di Harvard la sta già pubblicizzando come il posto più sicuro in cui vivere dal punto di vista climatico. Ma nonostante infrastrutture in grado di accogliere 150.000 persone – il doppio dei suoi attuali abitanti – negli ultimi 10 anni i nuovi residenti sono stati appena 56.

Con il suo piano anti-clima Duluth spera di eguagliare le fortune di Buffalo, sul Lago Erie, che ha già subito una prima ondata migratoria dopo la distruzione di Porto Rico nel 2017 da parte dell’uragano Maria: una migrazione di tale portata da costringere la cittadina ad assumere insegnanti di madrelingua spagnola.

Nel frattempo la cittadina del Minnesota ha iniziato a lavorare su una campagna pubblicitaria per attrarre nuovi abitanti. Cosa spinge gli americani a trasferirsi in Texas o in Florida? si sono chiesti gli audaci creativi. Ecco allora la foto di un surfista in muta e lo slogan: “Non fa poi così freddo”.

La storia di Duluth è curiosa, e suona come la storia di una sconfitta: quella di un paese che accetta di non poter – o non voler – fare sforzi per contribuire in maniera determinante a un’inversione di marcia che potrebbe salvare il nostro pianeta. Eppure Jesse Ausubel, direttore del Programma per l’Ambiente umano della Rockefeller University, propone la drastica soluzione di ritirarsi dal territorio per permettere alle foreste di ricrescere, ai pesci di riprodursi, alle città di godere di un’atmosfera incontaminata. Una liberazione, che potrebbe forse avvenire concentrandoci tutti in pochi luoghi selezionati, per lasciare che l’ambiente torni a vivere. Magari proprio a Duluth.