Malgrado la medaglia Fields e il premio Abel, che insieme ad altri prestigiosi riconoscimenti facevano di Atiyah uno tra i matematici più titolati al mondo, Michael non è mai stato un uomo vanitoso. Si comportava da pari fra pari, con un’affabilità e un’amichevolezza che molto dovevano alle sue origini: libanesi per parte di padre e scozzesi per parte di madre.
Il ricordo che ho di lui è di una persona sempre sorridente – credo sia difficile trovare una sola sua fotografia il cui volto non sia solare – ed estremamente curiosa. Soltanto pochi mesi fa, all’età di quasi novant’anni, si era cimentato con l’ipotesi di Reimann, annunciando di averne trovato la dimostrazione.
Spero abbia avuto il tempo di trascriverla e pubblicarla, perché sarebbe un contributo prezioso – l’ennesimo – di un grande uomo alla Matematica.
Cresciuto tra il Sudan e l’Egitto, malgrado i natali londinesi, il primo approccio alla matematica di Atiyah si manifestò con una prodigiosa capacità, già a dieci anni, di convertire mentalmente le valute, guadagnando sul cambio.
La sua carriera accademica è trascorsa nel cuore dell’eccellenza universitaria, tra Oxford, Cambridge e Princeton.
Ha fondato la k-teoria topologica – strumento algebrico che descrive le modalità per alterare lo spazio in un più alto numero di dimensioni – insieme a Friedrich Hirzebruch; mentre con Isadore Singer ha scritto il teorema dell’indice (di Atiyah-Singer) che permette di contare il numero di soluzioni indipendenti delle maggiori equazioni differenziali.
Più recentemente si è dedicato alla teoria quantistica dei campi. Le sue ultime ricerche sulle teorie di gauge, in particolare sulla teoria di Yang–Mills, hanno stimolato importanti interazioni tra geometria e fisica.
Mi piace ricordarlo con una frase, piena di vitalità e progettualità, pronunciata mentre era intento a dimostrare l’ipotesi di Riemann: “Sto cercando di dimostrare che si può ancora avere qualcosa da dire anche a 90 anni”.
Di Sante Di Renzo