Il piacere di vivere

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Cambiare il decorso di una malattia grave come il cancro, e tornare ad assaporare il gusto della vita, si può. “Basta poterlo volere”. Come dice Anne Ancelin Schutzenberger, 91 anni, psicoterapeuta, analista di gruppo  e psicodrammatista di fama internazionale,  ancora attiva, che ha di recente pubblicato un libro, dal titolo “Il Piacere di Vivere” ( Di Renzo editore, Roma). Un testo illuminante, prosecuzione di altri molto famosi, come La sindrome degli antenati, Una malattia chiamata genitori, Lo psicodramma e Uscire dal Lutto, che racchiudono sessanta anni di esperienza. La studiosa, che è anche professore emerito di psicologia all’Università di Nizza, ha infatti, sviluppato la tecnica del genosociogramma, e portato avanti gli studi sulle trasmissioni invisibili, sull’analisi transgenerazionale.

Sostenitrice della serendipità, della necessità di accogliere ciò che ci accade in modo inaspettato come una felice combinazione di eventi, nell’ultimo libro Anne Schutzenberger affronta più da vicino le origini di alcune forme di cancro, che spesso  colpiscono in determinati periodi della vita e diventano un modo con cui, in modo inconscio, spesso si  tenta di ripagare certi conti rimasti in sospeso con alcuni parenti, il più delle volte mai conosciuti. E vissuti in epoche tanto lontane.

La malattia, secondo l’autrice, non colpisce mai per caso. “Se si sapessero gestire gli elementi -scrive- di stress che rappresentano i cambiamenti e gli eventi di vita importanti, si eviterebbe spesso di  essere malati o di avere incidenti. C’è quindi un aspetto preventivo della lotta contro la malattia e per essere, restare o tornare di nuovo in buona salute. Si può infatti guarire dalla malattia e spesso rovesciare il corso fatale di una malattia se si trova un modo di gestire lo stress e affrontare gli eventi della vita, prendendosi tempo a sufficienza  e aiuto per affrontarli, vivendo in altro modo, attraverso un loro inquadramento, guardando le cose con distacco o allontanandosi dall’origine delle tensioni”. Magari imparando a dire di no. Retorico? Niente affatto. Soprattutto se si scorrono le pagine,  in cui la psicoterapeuta descrive i casi di persone che si ammalano quando ricorre un anniversario particolare,  o vengono colpite in determinate parti del corpo.  Spesso agiscono le cosiddette lealtà familiari inconsce.  Sorprendenti, poi, le analisi “sul mito del bambino che va via e ritorna”. Sui bambini “sostitutivi”, che prendono il posto dei bambini che muoiono.

A sentire l’autrice, più si frequentano persone malate e anche gravemente malate, più ci si accorge che molti hanno VOGLIA di restare malati per stare in vacanza, o per avere la possibilità di non risolvere i difficili problemi che si devono risolvere, o per evitare di affrontare un esame, un divorzio, una separazione, un lavoro, una scadenza, un fallimento. “Beninteso -scrive-  non si stratta sempre di fuga, inconscia nella malattia e nella morte; ma spesso il malato ha dei vantaggi ad avere (incassare) i benefici secondari della malattia, e non solamente la catastrofe, i guai, il dolore”.

Dunque, debellare persino il cancro si può. E un grande aiuto viene dal genosociogramma. Con questo sistema “si considera il legame eventuale tra la malattia, l’incidente, la morte, la nascita, nella famiglia. Si constata allora che ogni cosa avviene come se l’incidente, la malattia o anche la morte colpissero per sottolineare una data importante, un anniversario: un anniversario di data (stessa data) o un anniversario d’età (stessa età o figli della stessa età). In questo senso la professionista cita il caso di Colette, che aveva preso un cancro alla stessa età in cui l’aveva avuto sua nonna.

“La malattia appare spesso in un momento cruciale della storia della famiglia, su più generazioni o nella storia del singolo individuo”.

Coincidenze? Sì, strane, che vanno constate. E questo fa la psicoterapeuta da più di mezzo secolo. Per questo, sicura, afferma che venir fuori da un macigno che fa orrore, come il cancro, si può. Occorre spezzare la catena inconscia, e far capire che vivere regala più soddisfazioni che rimanere a letto o, addirittura, morire.

“Il corpo -aggiunge l’esperta- è come un luogo di memoria, di debito familiare e di lealtà invisibile e questo lavoro transgenerazionale di affioramento del trauma di un altro o del riconoscimento dei fatti ha permesso di esprimere lo stress indicibile, l’ingiustizia e di esser ascoltati, capiti, quindi indirettamente di cancellare la lavagna e di voltare pagina per andare avanti e smettere di pagare i debiti dei propri antenati, di reclamare vendetta per loro o di soffrire per la loro sofferenza”. Elaborare il lutto del passato è fondamentale per chi vuole vivere la propria vita. Quindi importante diventa perdonare e parlare. Autorizzarsi a svuotarsi. Certo, i fatti sono fatti e sono testardi. Non li si può dimenticare e non si può rivivere il passato. Si può quindi imparare di nuovo a respirare e a non continuare a punire se stessi privandosi dei piacere della vita.

“Alcune ricerche -dice ancora- sul metabolismo del corpo hanno dimostrato che le emozioni positive come l’amore, la felicità, il piacere, modificano il metabolismo del corpo, scatenano la produzione di endorfine che funzionano come una morfina naturale, alleviano il dolore e procurano euforia”. E allora? Cominciamo dalle piccole gioie:  mangiare cioccolato, osservare il cielo azzurro, le nuvole, ascoltare musica, prendere un caffè al sole, ridere con gli amici, indossare o toccare biancheria delicata.  E buttiamo tutto ciò che appartiene al passato e  procura dolore. Rinunciamo a ripetere ruoli, tagliamo i cordoni ombelicali che fanno orrore.

“Parlare -si legge- seppellire questi morti senza sepoltura, dire le cose, ritrovare e esprimere i segreti, i non detti politici, nazionali o familiari, rifiuto di identificarsi, gridare la sofferenza, l’ingiustizia, ha spesso migliorato la salute o provocato ciò che sembra una remissione o una guarigione da una malattia grave, un cancro, un’asma molto grave, una malattia di Raynaud, o addirittura una malattia di Crhon (rettocolite grave), malattie alle vie respiratorie e digestive che possono essere legate a ciò che non si può né inghiottire né digerire, secondo l’espressione popolare”.

In una parola, impariamo dagli indiani quando si puliscono il naso. Lo fanno  con le dita e buttano poi il moccio.  Noi spesso usiamo un fazzoletto ricamato, che poi conserviamo o rimettiamo in borsa, come un oggetto prezioso. E questo, per l’autrice, perché “noi manteniamo probabilmente troppo a lungo la sporcizia, le cose vecchie, le soffitte da sgomberare, le cantine da svuotare e teniamo anche troppo a lungo le nostre tristezze, i nostri rancori, i nostri risentimenti, anche se il male che ci hanno fatto era davvero reale.

C’è un tempo per tutto. Dopo l’orrore c’è un tempo ragionevole per il lutto, per girare pagina e vivere di nuovo. Ci si abitua di nuovo alla vita”. Senza più paura di essere felici.  Per chiudere, ancora Schutzenberger:

“Il sacrificio di sé si paga spesso con lo sfinimento, la malattia e la morte. Bisogna vivere pienamente incentrati su se stessi, sul proprio essere profondo e non decentrati, come giocattolo o portavoce di qualcun altro. Per guarire, bisogna voler guarire. Per voler guarire, bisogna aver voglia di vivere. E quanto più si affronta realmente la morte, ci si mette a nudo, si scoprono le proprie possibilità e la propria strada, tanto più si avrà voglia di vivere”.

Cinzia Ficco
(voglioviverecosi.com)