Di Giordano Bruno è stato detto molto e anche troppo, ma forse non proprio tutto. Shakespeare, per esempio, nella sua commedia “Pene d’amor perduto” – scritta tra il 1594 e il ’95 (quando cioè Bruno era già da due anni sotto processo) – nel personaggio di Berowne ce lo descrive ben diverso da come crederemmo: rivoluzionario e contemplativo, sì, ma anche sciupafemmine e dedito ai piaceri della vita.
“Tutto ciò, caro sire, ho già giurato (…) Però, ci sono regole assai severe: come, in tutto quel tempo, non veder mai una donna (…) Ah, son regole sterili codeste, son troppo, troppo dure da rispettare, niente donne, studiare, vegliare e digiunare”.
Del filosofo Nolano gli inglesi apprezzarono non solo la teoria dell’universo infinito ma soprattutto le dottrine esoteriche e magiche, così come riproposte sempre in Shakespeare in “Antonio e Cleopatra”, attraverso l’esoterismo “egiziano” e l’immagine copernicana del mondo. L’ammirazione del drammaturgo inglese per il Nolano fu da lui ricambiata con una visita a Londra, al teatro del poeta.
E se fra poeti e filosofi corre buon sangue, non lo stesso si può dire tra filosofi: è risaputo che Giordano Bruno, anziché chiamare Aristotele col tradizionale appellativo di “filosofo”, lo chiamava con quello molto meno lusinghiero di “sofista”. Ma la vera novità riguarda il processo del Nolano.
I documenti esaminati dal giornalista e storico Germano Maifreda – nel suo libro “Giordano Bruno e Celestino da Verona. Un incontro fatale” (Edizioni della Normale di Pisa) – mettono in dubbio la trasparenza del dato storico.
Tra giugno e settembre 1599, Fra’ Celestino da Verona, sotto processo a Roma per eresia e in attesa della pena capitale, usufruì di un ricco menù a base di carne e qualche abito, a spese del Sant’Uffizio. Trattamento insolito per un condannato della Santa Inquisizione. Che si sia trattato di corruzione? Fra’ Celestino, infatti, fu il principale accusatore di Giordano Bruno: ogni qual volta la procedura contro il Nolano si trovò incagliata, le accuse di Celestino permisero alla corte di fare un passo avanti.
L’immediata incarcerazione veneziana, senza che prima fosse aperto un fascicolo; le informazioni spedite a Roma, solo in un secondo momento; i memoriali che andavano e venivano tra improvvise accelerazioni e frequenti lunghe fasi di stallo; la cautela con cui il filosofo intrattenne un dialogo con l’Inquisizione, lasciandosi aperta per anni la via della ritrattazione; e poi la tragica fine, che contraddiceva tutta la strategia perseguita fino a quel momento, sono solo alcune delle irregolarità che creano sospetto.
C’è chi avanza l’ipotesi che a motivo dell’insolito silenzio del Nolano vi fosse proprio la consapevolezza di un destino già scritto, ma – apprendiamo dalle testimonianze dell’epoca – che il condannato “stette sempre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità”, non perché chiuso in riflessione, ma perché scortato tra la folla verso Campo de’ Fiori con la lingua posta “in giova” (mordacchia) per impedirgli di parlare. Tanto facevano paura le sue parole.