A fine maggio, il consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Donald Trump, H.R. McMaster e il direttore del Consiglio Nazionale Economico della Casa Bianca Gary Cohn hanno firmato un editoriale sul Wall Street Journal che elogiava il recente viaggio del Presidente americano in Europa e in Medio Oriente. “Il Presidente ha intrapreso il suo primo viaggio all’estero con la prospettiva chiara che il mondo non è una comunità globale,” scrivono, “ma un’arena dove le nazioni, gli attori non governativi e gli affari si combattono e competono per un vantaggio.”
Due giorni dopo, il Presidente ha dichiarato l’intenzione di ritirarsi dagli Accordi di Parigi – lo sforzo di 147 Paesi di ridurre le emissioni di gas serra e rallentare i cambiamenti climatici.
Due mosse, queste, che riassumono la dottrina alla base della politica estera di Trump: gli Stati Uniti sono impegnati in una forma di concorrenza “a somma zero” con altri Paesi, in cui i benefici derivanti dalla cooperazione sono limitati. Ma l’economia americana non è l’economia dei giochi ipotizzata dal Premio Nobel Robert Aumann e questa visione mal si adatta ai fatti, danneggiando, più di quanto si immagini, le prospettive di prosperità e sicurezza degli Stati Uniti, insieme a quelle del nostro pianeta.
I fatti dimostrano che nelle relazioni internazionali la cooperazione vince sulla competizione. Il primo segno è proprio il fatto che, a dispetto della propaganda del Presidente e del suo team, il mondo non è mai stato più in pace. Infatti, nonostante gli orrori della Siria, la tragica situazione del Sudan, le turbolenze in Ucraina, le cifre ci dicono che i morti dovuti alle guerre sono al minimo storico, con appena due conflitti tra Stati tra il 2004 e il 2011, ed il trend è destinato a scendere.
E le ragioni dietro a questo fenomeno sono fortemente economiche. L’accesso al territorio e alle risorse naturali come il petrolio –tradizionali cause di molte guerre – sono ormai elementi sempre meno significativi della ricchezza e del potere di un Paese. La Corea del Sud, ad esempio, che controlla lo 0,1% della superficie del pianeta, ha un Prodotto Interno Lordo maggiore di quello che l’intero pianeta aveva nel 1820.
Secondo Jesse H. Ausubel, che dirige il Programma per l’Ambiente Umano alla Rockefeller University, stiamo già sfruttando la quantità massima di territorio utilizzabile per la coltivazione (che lui definisce Peak farmland).
Ausubel suggerisce inoltre che gli Stati Uniti hanno probabilmente superato anche la quantità massima sfruttabile di tutta una serie di risorse naturali, dall’alluminio al ferro, acciaio, rame e cemento. Per questo la produzione dei Paesi ricchi sta diventando sempre più imponderabile: le economie avanzate hanno ormai raggiunto il punto di saturazione e il consumo di merci è in forte calo.
Intanto, continua a crescere la fornitura di risorse naturali. Se nel 1950 le riserve mondiali di rame erano al di sotto dei 100 milioni di tonnellate (a coprire circa 38 anni di consumi), nel 2012 le riserve sono a 700 milioni di tonnellate. Nel 1980 le riserve di petrolio erano intorno ai 650 miliardi di barili, oggi sono triplicate.
A tutto questo si aggiunge il fatto che ormai la ricchezza di un Paese dipende sempre di più dalle idee, dalle tecnologie e dalle istituzioni di mercato e sempre meno da risorse e infrastrutture fisiche.
Uno studio della Banca Mondiale che ha calcolato la ricchezza delle nazioni – il valore delle infrastrutture, delle foreste, della terra coltivabile e delle risorse e anche del capitale “immateriale” – ipotizzava nel 2005 una ricchezza globale di oltre 700 trilioni di dollari. Il capitale “immateriale” rappresentava il 77% di quella ricchezza mentre il valore del capitale naturale era appena il 6% della ricchezza totale.
Il bello delle idee, delle tecnologie e delle istituzioni di mercato è che sono condivisibili, possono cioè essere utilizzati da molti Paesi contemporaneamente. Non posso usare il petrolio pompato in Texas se lo usa qualcun altro, ma se tu usi una tecnologia per la contabilità a partita doppia o per la videoscrittura, nulla mi impedisce di usarla a mia volta.
L’economia globale è sempre più costruita intorno a fondamenti di collaborazione piuttosto che di competizione. L’aspetto geniale del commercio globale è che consente questa collaborazione, ad esempio tra aziende di diversi paesi che lavorano insieme in catene di montaggio per la produzione di un prodotto finito. La metà delle esportazioni cinesi è fatta di semilavorati e componenti che poi vengono finiti e assemblati altrove.
Oltre a guidare la prosperità globale e a fornire nuove opportunità di esportazione ed investimenti per le aziende statunitensi, la crescente complessità dei modelli di commercio ha aumentato i potenziali costi dei conflitti tra grandi aziende.
Ma se la produzione diventa sempre meno e lo sfruttamento delle risorse è in calo, tutto questo non basta ancora ad assicurare la stabilità climatica, la cui mancanza potrebbe costare ai soli Stati Uniti trilioni di dollari entro la fine del secolo. E le problematiche legate ai cambiamenti climatici possono essere risolti solo attraverso la cooperazione.
Negli anni ’80, il mondo guidato dagli Stati Uniti di Ronald Reagan fermò una grave minaccia – il buco nello strato di ozono – con una serie di accordi che limitavano l’uso dei clorofluorocarburi. Oggi lo strato di ozono si sta ricostituendo: quella collaborazione deve essere vista come una pietra miliare nella cooperazione internazionale e deve far riflettere sul danno che l’uscita dagli accordi di Parigi potrebbe rappresentare.
Le crescenti minacce agli obiettivi globali comuni insieme alle economie di guerra, di pace e di prosperità significa che la strategia a lungo termine per un pianeta sostenibile e un’America ricca e prospera legherà i Paesi del mondo a doppio filo.
Gli Stati Uniti dovrebbero incrementare le relazioni commerciali con l’estero per creare nuovi posti di lavoro. Dovrebbero sostenere borse di studio e visti per studenti da tutto il mondo per costruire nuovi legami economici globali. Dovrebbero abbracciare nuovi accordi di Diritto Marittimo Internazionale attraverso gli Accordi di Parigi. Percorrere la direzione opposta significherebbe danneggiare il resto del mondo ma anche arrancare. L’idea che l’America possa essere grande solo a spese di altri Stati somiglia proprio alla cattiveria gretta e meschina del bulletto della scuola.
Fonte: USNews