Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Michael Collins, ovvero il cast del film più visto e celebrato di tutti i tempi: lo sbarco sulla Luna. Tre astronauti e non meno di 400.000 persone che tra il 1961 e il 1969 lavorò alacremente per trasformare un sogno in un obiettivo raggiunto.
Eppure, 10 anni di ricerche e di sforzi si possono riassumere in 13 minuti, quelli della discesa di Armstrong e Aldrin sulla superficie lunare. Tredici minuti in cui accadde di tutto senza che chi stava guardando da casa, quel 20 luglio del 1969, si accorgesse della tensione dei protagonisti.
Tensione che emerge invece dalle registrazioni audio di quei momenti. Ogni frase, ogni parola, persino i silenzi, trasudano l’intensità con cui si cercava di raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Kennedy: andare sulla Luna entro la fine del decennio per vincere la corsa allo spazio già avviata con successo dall’Unione Sovietica.
In quei 13 minuti necessari per raggiungere la superficie lunare Armstrong, Aldrin e la squadra del “mission control” affrontano un problema dopo l’altro.
Per prima cosa il modulo lunare su cui viaggiano si muove troppo velocemente con il rischio di mancare il punto previsto per l’allunaggio. Inoltre, più si avvicinano alla superficie della Luna, più le comunicazioni radio con la base diventano confuse, fino a che il computer di bordo – da cui dipendono quasi totalmente – entra in tilt lanciando una serie di allarmi che l’equipaggio non aveva mai visto prima e che non sono in grado di comprendere.
L’allunaggio dell’Apollo 11 è infatti quasi completamente nelle “mani” del pilota automatico, l’Apollo Guidance Computer: un dispositivo la cui semplicità oggi fa sorridere ma che è il computer più complesso e sofisticato disponibile all’epoca, il cui supporto è essenziale per la riuscita della missione. L’AGC visualizza serie di numeri corrispondenti a informazioni per l’identificazione di eventuali problemi e avarie, ma le stringhe visualizzate dal display non hanno senso, né per gli astronauti né per il supporto a terra. “Houston, abbiamo un problema,” vorrebbero dire, ma a chi? Nemmeno il mission control è in grado di dire se il computer sta per abbandonarli, se la missione è fallita o se la vita dell’equipaggio è in pericolo.
Seguono 15 interminabili secondi di silenzio. Armostrong sollecita ancora una risposta: cosa significano quei numeri? Intanto a terra si cerca disperatamente di capire, mentre il modulo continua la sua caduta verso la Luna. Ma il controllo è abituato a casi come questo: risolvere problemi di sistema in tempo reale con l’intervento manuale dell’uomo. In quei 15 secondi un membro del controllo missione trova in quel codice una somiglianza con una simulazione di alcune settimane prima e conferma: il computer è in crisi ma funziona ed è in grado di guidare l’equipaggio nelle fasi cruciali della missione.
La fase dell’allunaggio
Nel frattempo gli astronauti si accorgono che il punto scelto per l’allunaggio è una zona sassosa, vicino a un cratere. Allora Armstrong prende il controllo della navetta Eagle, ma il propellente sta per finire quindi bisogna sbrigarsi. Con appena 90 secondi di carburante disponibile finalmente trovano una zona pianeggiante. I motori sollevano polvere dalla superficie lunare, non si vede più nulla. Altri preziosi secondi di propellente persi. Ci sono spuntoni di roccia però; pericolosi ma anche importanti punti di riferimento. Una luce si accende, Aldrin capisce che le sonde delle gambe di atterraggio hanno toccato la superficie. “Contact Light!” esclama. “Shutdown,” replica Armstrong. Si spengono i motori. L’allunaggio è avvenuto.
Eagle tocca la Luna con appena 25 secondi di propellente nei serbatoi. Conclusa la check-list Armstrong ufficializza l’allunaggio: “Houston, Tranquility Base here. The Eagle has landed.”
Finalmente cominciano le operazioni per portare il primo uomo sulla Luna. In realtà dopo l’allunaggio è previsto un “riposino”, ma gli astronauti non pensano di riuscire a dormire. All’ok di Houston, iniziano i preparativi per la passeggiata sulla Luna: sono più lunghi del previsto e Aldrin e Armostrong sono pronti a uscire alle 2.40.
L’Eagle viene depressurizzato, il portello si apre. Armstrong non riesce a passare dallo sportello: lo zaino agganciato alla tuta spaziale è troppo grande. Alla fine riesce, la sua frequenza cardiaca raggiunge il picco. Comincia a scendere la scaletta, ma non riesce a vedersi i piedi, perché l’unità di controllo remota che ha sul casco glielo impedisce. Attiva la telecamera che riprenderà tutto per tramandarlo alla storia. Con qualche minuto di ritardo le immagini arrivano anche alla televisione. Seicento milioni di telespettatori in tutto il mondo stanno per vedere il primo uomo sulla Luna.
Poco prima di toccare il suolo Armstrong scopre la famosa targa con i due emisferi terrestri, poi descrive la grana fine come polvere che vede a terra, e poco prima di scendere dalla scaletta pronuncia la sua celebre frase: un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità. Alle 2.56 del 20 luglio 1969 Neil Armstrong fa il suo primo passo: l’uomo cammina sulla Luna, obiettivo raggiunto.
Il resto è storia: la raccolta dei campioni, l’arrivo di Aldrin, le fotografie e le rilevazioni, la bandiera americana, la telefonata con il presidente Nixon.
Dopo 50 anni l’entusiasmo di quei momenti non si è ancora spento. Ci sono state altre conquiste, è vero. Le sonde sono arrivate su Marte, c’è una stazione spaziale in orbita, anche le donne sono andate nello spazio. La conquista della Luna resta però un evento incomparabile: 13 minuti unici che ci hanno visto tutti dalla stessa parte, nell’orgoglioso tentativo di superare i nostri limiti.