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16 ottobre rastrellamento nel ghetto ebraico a Roma

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Erano le cinque del mattino il 16 ottobre 1943 al Portico d’Ottavia, nel ghetto di Roma: “C’è stato prima un silenzio ovattato, poi il pesante calpestio ritmato degli stivali dei militari in marcia”.

E poi il bussare energico, perentorio alle porte e ai portoni battendo anche con il calcio dei fucili. Un centinaio di SS con i loro tetri simboli sulle divise, in mano una piantina e una lista, si dirigono sicuri agli indirizzi forniti dall’Ufficio fascista Demografia e Razza.

Non esitano, se necessario, a sfondare le porte e trascinare fuori intere famiglie. “Al portico d’Ottavia erano pronti i camion”. “Non prenderanno noi che abbiamo quattro bambini”, “prenderanno i più giovani, gli antifascisti”” Non porteranno via mio nonno, mia madre, i nostri figli piccoli”.

Increduli i testimoni – i pochi rimasti – di quella terribile alba di Shabat, il giorno di riposo ebraico, raccontano il rastrellamento nazista nel ghetto. Gli abitanti attoniti, confusi, perplessi. Nei giorni precedenti avevano raccolto e versato 50 kg di oro richiesti dal comandante Kappler, con la promessa di evitare la deportazione.

In un primo momento “non si sentivano pianti o grida”. “Non capivamo cosa stava accadendo. Perché adesso venivano presi uomini, e anche donne, bambini, anziani, addirittura malati”.

Era stato messo loro in mano un biglietto: dovete essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, gli ammalati, anche gravissimi o gli infermi non possono per alcun motivo restare indietro, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermeria. Il cinico messaggio era: il campo sarà “un campo di lavoro”.

Prima che la paura li spingesse a reagire e provare a scappare, nascondersi, molti andarono verso il loro tremendo destino senza opporre resistenza. Alcuni rimasti indietro vollero raggiungere i familiari e salirono sui camion. 1022 persone, fra cui 220 bambini e una donna incinta che diede alla luce il suo bimbo nel Collegio Militare dove sostarono prima di essere caricati sui carri bestiame alla stazione Tiburtina.

La sordida maniacale burocrazia tedesca documentava quella partenza con una foto che ritrae, prima di salire sul treno, un gruppo di donne con i loro bimbi in braccio, anziani senza più espressione sul viso, una bimba che gioca per terra, tutti con la stella gialla sugli abiti, dal fondo una donna con lo sguardo intontito accenna addirittura a un vago sorriso.

Non credevamo di andare a morire”. Un’altra foto scattata al loro arrivo ad Auschwitz Birkenau, dopo 5 giorni di viaggio sui carri bestiame, chiusi senza cibo né acqua se non quello che si erano portati li mostra imbambolati, i bimbi con lo sguardo cupo, bimbi piccolissimi.

È il momento prima della selezione che sceglierà 149 uomini e 47 donne, gli altri, compresi tutti i bambini, finiranno subito nelle camere a gas. “Pensavamo di andare a lavorare e che ci saremmo rivisti la sera”.

Di oltre mille che erano partiti tornarono 15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino che, come tanti, passerà la vita a testimoniare la Shoah. Marcella Perugia, che diede alla luce il suo bimbo nel Collegio Militare, non tornerà. Al suo bimbo senza nome toccò la stessa sua sorte.

Oggi chi cammina nel ghetto vedrà brillare davanti alle abitazioni di coloro che non tornarono le Stolpersteine le Pietre d’Inciampo: dei sampietrini coperti da una placca di ottone sulla quale sono incisi nome, cognome, data della deportazione e della morte di queste vittime. Gunter Demning scultore tedesco si prodiga dal 1995 per ridare identità e testimonianza a chi è stato assassinato dalla follia nazista.

Ne ha poste decine e decine di migliaia in tutta Europa e ha promesso di non smettere finché non avrà ritrovato più vittime possibile. “Andrò avanti finché le forze me lo consentiranno”. dice in una intervista (riportata nel libro Le parole di un uomo, Di Renzo editore).

Vorrei che queste vittime del Nazifascismo non si sentissero mai abbandonate perché questo era lo scopo della loro eliminazione. Lo scopo della mia vita è fare qualcosa contro queste tragedie. Come dice il Talmud ebraico, quando il nome di una persona è scritto, non si disperde la memoria di quell’uomo o quella donna”.

Il primo gesto simbolo di tale annientamento, appena giunti nei campi, era infatti di togliere agli ebrei il loro nome e sostituirlo con un numero tatuato sul braccio. Non più persone, numeri.

Scritto da Milva Spadi