La visione artificiale

Un approccio interdisciplinare alle differenze tra la visione umana e quella artificiale

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Assistendo a una lezione di scienze in un liceo, si scopre quasi subito che gli occhi, il cui lavoro è spesso dato per scontato, fanno in realtà molte cose. Oscurare il naso alla vista e rimontare le immagini che sulla nostra retina appaiono a testa in giù, sono invece decisioni del cervello.

Appena venuta a conoscenza di tutto ciò, mi sembrava già che il mio cervello avesse del miracoloso e che il resto fosse meno importante. In seguito, però, ho scoperto anche la visione periferica, la cecità ai colori e gli schemi visivi, ossia i modelli di pensiero che organizzano gruppi di informazioni. Poi ho scoperto con quale rapidità questi schemi diventano soggettivi. La visione, adesso molto chiara, è dunque una delle tante componenti della percezione, una delle sue armi.

“SEEING: Cosa stai cercando?” – capitolo dedicato all’esplorazione del cervello, degli occhi, dell’intelligenza artificiale e di come questi percepiscono il mondo – inaugura dunque la prima mostra del riaperto Museo di Scienze di Phillip & Patricia Frost, ed è la seconda incarnazione della mostra (questo infatti è il suo debutto negli Stati Uniti, ma dopo aver viaggiato dall’irlandese Science Gallery di Dublino).

Curata da diverse persone – il chirurgo oculoplastico, e fondatrice di Right to Sight, Kate Coleman; la direttrice della Trinity College Dublin’s Science Gallery, Lynn Scarff; Gerry Lacey, professore associato di Scienze della comunità presso il Trinity College di Dublino; Semir Zeki, professore di Neuroestetica all’Università di Londra – SEEING esamina diversi argomenti: la visione, le principali teorie sulla percezione, diffusione e accessibilità delle cure per gli occhi, e come tutto ciò possa applicarsi all’Intelligenza Artificiale, il cui senso della vista è ancora molto difettoso e più soggettivo del nostro. La maggior parte dei lavori esposti viene da un coordinamento tra artisti ed educatori, impegnati nel campo del design e della visione.

La direttrice creativa del Frost, Alexandra Kuechenberg, ha allestito una mostra spettacolare, distribuita su due piani. Molti dei lavori sono visivamente gradevoli, tanto da risultare fruibili per i bambini: “Magical Color Space” di Kurt Laurenz Theinert è una stanza tappezzata di carta da parati a righe, con una luce che lentamente altera le proporzioni di rosso, blu e verde, fino a che colori e strisce sembrano scintillare e scomparire.

Questo effetto vertiginoso ha gratificato il mio bambino interiore, ed è un bene. Nel senso più stringente della parola, le illusioni ottiche sono stimolanti, semplicemente perché funzionano sempre (da qui la popolarità dei libri di Magic Eye tra i ragazzi della scuola secondaria).

La maggior parte di SEEING oscilla tra l’esame critico delle capacità visive delle A.I. e una serie di meditazioni esperienziali sulla fragilità della vista, che contribuiscono a favorire l’empatia verso coloro che sono ipovedenti.

In “Sight Without Light: Esplorare l’ecolocalizzazione umana”, una performance di Story Inc. e Daniel Kish (presidente del World Access for the Blind), i visitatori sono invitati a sperimentare il mondo di Kish, i cui occhi sono stati rimossi chirurgicamente quando era ancora un neonato. Kish ha imparato a navigare nel mondo attraverso l’ecolocalizzazione, ossia facendo schioccare la lingua e ascoltandone il suono rimbalzare sugli oggetti intorno a lui.

All’interno del museo i visitatori vengono bendati e istruiti per produrre un forte rumore – simile a uno ssshh – mentre tendono le orecchie per ascoltare come il suono cambi quando un ostacolo si avvicina (per esempio, una piccola palla).

L’interattività è l’attributo prevalente. Troviamo esposti una canna a ultrasuoni e un autorefrattore per esaminare l’occhio dall’esterno. Tuttavia, il punto cruciale di SEEING è l’esplorazione dell’intelligenza artificiale, così come la domanda: “Può l’A.I. sviluppare empatia?”. Da qui, SEEING comincia a diventare una mostra meno visiva, e più un laboratorio educativo.

“Il motore dell’innovazione” – di Frederik De Wilde, Jeff Clune e Anh Nguyen – consente di passare davanti allo schermo di un computer, mentre sta formando il suo database, osservando le immagini che ha memorizzato di noi e come ci ha etichettati. Durante il mio tour della mostra, il computer ha deciso che la Kuechenberg era una cotta di ferro da armatura antica, a causa del motivo finemente punteggiato sulla sua camicia (io ero soltanto un cappotto beige, al quale non avrei attribuito assolutamente nulla). Se le vostre aspettative sono alte, l’intelligenza artificiale è sempre deludente, e spesso sbaglia in modo comico.

“20/X” è un’opera interdisciplinare di McMullen_Winkler, che consente di vedere gli oggetti come farebbe un computer – all’interno di una campana di tessuto bianco, dove l’immagine dell’oggetto è proiettata e auto-regolata. Giocando con alcuni interruttori, ho visto un mazzo di fiori trasformarsi in un simulacro multicolore e pixellato.

Avrei preferito vedere un fiore, morbido e senza fatica, ma non è questo il punto: stavo guardando come un computer impara cos’è un fiore, i suoi bordi e le sue forme rotonde. Qui, l’avanzamento della tecnologia, a fini di ricerca e identificazione degli oggetti, si vede in maniera tangibile e forse questo tipo di ricerca può risultare utile anche per aiutare i non vedenti: se una macchina senza occhi può imparare a individuare la complessità di qualcosa di organico, sicuramente un cieco può manovrarla per rendere il mondo più accessibile.

In un’altra dimensione, dove una tale singolarità non sarebbe poi così strana, forse potremo convivere armoniosamente con i robot. La mia opera preferita è “3RNP”, di Patrick Tresset, dove tre automi di nome Paul disegnano una figura umana. I tre Paul, che sembrano fatti soltanto di webcam e ingranaggi, sono seduti a un banco di scuola.

I modelli umani assomigliano alle loro braccia, che come goniometri assemblano pezzi graffitati. I disegni ultimati sono appesi a un muro lì vicino, in file di personaggi astratti. C’è qualcosa di sciocco e sconveniente in tutto questo, ma le implicazioni future di tale processo rendono il tutto meno incredibile. E poi, se guardi da vicino, i dettagli delle espressioni facciali sembrano quasi umani.

Fonte: Hyperallergenic