Una vasca di pietra che negli Anni 30, nel giardino dell’Istituto di via Panisperna a Roma, ospitava dei pesci rossi, dovrebbe avere un posto d’onore nella storia della fisica nucleare. Lì, il 22 ottobre 1934, poco dopo mezzogiorno, Enrico Fermi fece l’esperimento decisivo per dimostrare che l’acqua rallenta i neutroni, rendendoli molto più efficaci nell’indurre una radioattività artificiale in elementi chimici che normalmente radioattivi non sono. Per questa scoperta nel 1938 gli verrà assegnato il Nobel. E dai «neutroni lenti» deriveranno la «pila atomica», le bombe e le centrali nucleari.
Ma perché la vasca dei pesci rossi in giardino? Non sarebbe stato più semplice, comodo e immediato usare una tinozza in laboratorio? Partendo da questa domanda due fisici, Fabio Cardone e Roberto Mignani, hanno svolto una indagine quasi poliziesca, raccontandola poi in un piccolo godibilissimo libro dal titolo «Enrico Fermi e i secchi della sora Cesarina» (Di Renzo Editore), strutturato come un giallo. Il titolo rivela già l’assassino: la colpevole (del tutto ignara) fu la «sora Cesarina», la donna delle pulizie incaricata di lavare i pavimenti del leggendario Istituto di fisica romano. Ma ciò non toglie attrattiva alla storia.
I testimoni sono quasi tutti scomparsi. Per fortuna hanno lasciato documenti scritti, che Cardone e Mignani hanno attentamente vagliato. Gli esperimenti consistevano nel bombardare con neutroni un pezzetto di argento per renderlo radioattivo. I risultati però variavano in modo capriccioso.
In certi giorni e in certi posti del laboratorio l’argento diventava più radioattivo; in altri giorni, o semplicemente cambiando stanza, la radioattività indotta era più debole. A un certo punto ci si accorse che il bombardamento diventava molto più efficace se i neutroni, prima di raggiungere il bersaglio, dovevano attraversare uno strato di paraffina o dell’acqua. Ma come si arrivò a questa scoperta?
Fermi, nel 1952, raccontò che era stato un semplice caso: aveva pensato di frapporre ai neutroni una lastra di piombo ma poi, senza nessuna idea precisa, invece del piombo mise un pezzo di paraffina e si accorse che la radioattività diventava incredibilmente maggiore. Dunque niente acqua, niente vasca dei pesci rossi. Fermi però trovò subito la spiegazione: i neutroni, attraversando materiali contenenti idrogeno, come la paraffina e l’acqua, venivano frenati, e ciò li rendeva più efficaci nell’indurre la radioattività.
Neanche Emilio Segrè cita la vasca, che in varie maniere, invece, salta fuori nelle testimonianze di Franco Rasetti, di Edoardo Amaldi, della moglie di Fermi Laura Capon e del chimico del gruppo, Oscar D’Agostino. Il mistero si infittisce.
I nostri investigatori Cardone e Mignani si sono però imbattuti in Mario Berardo, il vecchio custode dell’Istituto di via Panisperna, che li ha indirizzati sulla strada giusta. Fu tutta colpa della “sora Cesarina”, la donna delle pulizie, al secolo Cesarina Marani. A lei toccava il compito di lavare il pavimento dei laboratori e, all’insaputa di Fermi e dei «ragazzi», la sora Cesarina spesso nascondeva sotto un tavolo della stanza dove lavorava Pontecorvo i secchi pieni d’acqua di cui aveva bisogno per svolgere le sue mansioni.
Pontecorvo rischiò di essere cacciato perché i suoi esperimenti davano risultati inaffidabili. D’Agostino e Amaldi vennero a sapere dei secchi e, sospettando un loro influsso sugli esperimenti, ne informarono Fermi. L’acqua contenuta nei secchi suggerì al grande fisico l’ipotesi dell’azione dell’acqua sui neutroni.
Fermi fece subito l’esperimento cruciale immergendo in un secchio la sorgente di neutroni (berillio e radon sigillati in una bolla di vetro) insieme con un pezzetto d’argento, ripetendo poi la misura a secchio vuoto. L’acqua sembrava il fattore decisivo. Allora Fermi propose di rifare l’esperimento con una grande quantità d’acqua. E fu così che si arrivò alla vasca dei pesci rossi. Il tutto era già stato raccontato da D’Agostino in un articolo pubblicato su «Candido» nel 1958.
Piccolo corollario. In realtà spesso i neutroni rallentati scindevano i nuclei atomici che colpivano, ma questo fatto fondamentale sfuggì a Fermi e ai suoi «ragazzi», così come due anni prima per un soffio era loro sfuggita la scoperta del neutrone (quello che ci andò più vicino fu Majorana). La tecnica per rallentare i neutroni lenti fu essenziale per far funzionare la pila atomica e poi per sviluppare la reazione a catena esplosiva nella bomba. A Fermi mancò però il passo che l’avrebbe portato a scoprire la fissione nucleare, che pure era sotto i suoi occhi. La stessa motivazione con cui gli fu conferito il premio Nobel (per la scoperta dei neutroni lenti e della radioattività artificiale) è, in fondo, solo una mezza verità.
La Stampa, Tutto Scienze – Mercoledì, 19 Settembre 2001 – Piero Bianucci