“Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e far comprendere la nostra esperienza?” Con questa domanda Primo Levi apre il secondo capitolo de I sommersi e i salvati. La domanda rimbalza immediata al lettore ed è una domanda che sconcerta e imbarazza.
Vorremmo tutti rispondere di sì che abbiamo compreso, che ci hanno aiutato a comprendere perché anche solo un’immagine vaga di quella sofferenza è sufficiente a comprendere. Ma la risposta, è ovvio, non è questa.
Non può essere così diretta, così semplice; altrimenti avremmo trovato anche delle soluzioni per spiegare, almeno, le molte assurdità che accadono ogni giorno.
Quale risposta si può dare a Levi? Forse possiamo solo continuare ad interrogarci a nostra volta e a far vivere le sue parole come quelle di altri reduci o di chi ci racconta gli avvenimenti della nostra storia recente e ci parla di un evento ancora così oscuro.
Così nel riproporre un’intervista registrata molti anni fa, a pochi mesi dalla scomparsa dell’autore e testimone, mi è sembrato opportuno andare a cercare degli interlocutori possibili.
È Levi però, – come si vedrà – attraverso le riflessioni registrate allora e i suoi argomenti, a porre le domande, ad avviare i racconti, a provocare reazioni. Sono interlocutori abbastanza diversi tra loro, ma il comune tema di fondo è la storia recente e l’esperienza estrema del Lager su cui Levi è ritornato ne I sommersi e i salvati.
Tuttavia, seguendo la traccia degli argomenti trattati nell’intervista, si aprono anche tematiche indirettamente attinenti al tema: il terrorismo, per esempio, o l’immigrazione.
Si tratta di una decina di persone che hanno provato a dare le loro risposte o hanno raccontato la propria storia. In realtà mi pare che gli interventi, su un tema così essenziale, potrebbero essere ancora infiniti. Ma forse sono qui raccolti alcuni pezzi, anche se solo una piccola parte, di quel grande puzzle che potrebbe diventare la risposta al reduce.
Ho un rammarico: è il rammarico di un lettore. Anche qui Levi torna solo in veste di testimone di Auschwitz, e la forza di questo ruolo allontana, distrae dallo scrittore. Di questo mi dispiace.
La capacità descrittiva di Levi, l’accuratezza, l’attenzione minuta della sua scrittura, la sua impressionante lucidità, sono qualità che forse è stato il Lager a svelare, così almeno si deduce dalla sua biografia; Levi stesso racconta che solo dopo aver scritto Se questo è un uomo e La Tregua acquisì il “vizio di scrivere”.
Mi paiono, da lettore, caratteristiche assolutamente vitali e tanto lontane da quella grande tristezza. Così il dispiacere è anche per lo scrittore che non scrive più. Il sistema periodico, La chiave a stella, Storie naturali, Vizio di forma e gli altri suoi libri sono rimasti purtroppo soli nello scaffale.
Prefazione di Le parole di un uomo, Incontro con Primo Levi – Milvia Spadi