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Maschilismo? È anche una questione linguistica

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Possono due parole identiche avere un significato diverso, quando usate al maschile e al femminile? Ahimè, sì. Un articolo pubblicato sul sito web di BBC riflette sull’annosa questione delle connotazioni che l’uso comune di alcuni termini associa ad essi arrivando a modificarne il significato. E lo fa partendo proprio da una parola italiana: una passeggiatrice non è la stessa cosa di un passeggiatore.

Ma anche in altre lingue il concetto si ripete. In inglese come in italiano una zitella e uno scapolo sono due persone che non si sono mai sposate, ma mentre il primo termine implica una qualche mancanza da parte del soggetto, il secondo quasi allude ad uno stato di grazia.

Senza contare poi numerosi esempi di termini negativi per i quali esiste solo la versione al femminile, doenjang nyeo, per esempio – un termine coreano in voga dai primi anni 2000 che descrive una donna orientale che cerca di nascondere la propria origine ricoprendosi di griffe. Il suo equivalente maschile non esiste.

Forse per questo, anche i linguisti cominciano a parlare del sessismo nascosto del nostro vocabolario, che certamente data ai tempi in cui il potere era nelle mani del patriarcato. La battaglia per la parità di genere dovrebbe dunque passare anche attraverso il nostro modo di usare il linguaggio.

Non deve sorprendere se, ad esempio, molte donne chiedono oggi di essere designate con il femminile del proprio mestiere o professione, anche se tradizionalmente usato al maschile. Solo poco tempo fa, l’albo degli architetti di Cagliari ha accolto la richiesta di una sua iscritta di essere registrata come architetta, termine presente nel dizionario della lingua italiana insieme a ministra, sindaca, chirurga, ingegnera.

E ai puristi che scomodano le desinenze latine per giustificarne l’omesso utilizzo, una nota enciclopedia ha giustamente ricordato che – nel caso non se ne fossero accorti – negli ultimi decenni le donne sono entrate sempre più numerose nel mondo del lavoro, delle professioni e delle istituzioni tradizionalmente riservato agli uomini. E siccome le lingue parlate si evolvono, sarebbe forse anche ora di adeguarle alla realtà in cui viviamo.

Bisogna dire che non tutte le donne condividono questo pensiero: all’ultimo festival di Sanremo, Beatrice Venezi ha ribadito di voler esser definita un direttore d’orchestra, termine che – secondo lei – è il nome proprio del suo mestiere. È certamente vero che il nome non è che una convenzione, e che forse il sapersi donna in un posto tradizionalmente occupato da un uomo deve dare una certa soddisfazione. Ma se le parole sono “come pietre”, è forse utile che la conquista della parità di genere passi anche da un’innocua rivoluzione linguistica.

Si potrebbero così evitare i paradossi di quest’epoca moderna, in cui persino la tecnologia – che dovrebbe essere più avanti di tutto – resta ancora indietro. Secondo uno studio americano del 2015, la ricerca in Google Immagini per la voce anglosassone “author” (che in inglese si usa sia per il maschile che per il femminile) forniva per la maggior parte foto di scrittori anche se all’epoca le scrittrici donne erano molte di più. Egualmente, per le professioni nel campo della scienza e della tecnologia Google Translator ricorre sempre alla voce maschile. Ma questa è un’annosa questione, che data ai tempi del vocabolario di carta…

Intanto, vi invitiamo a leggere i libri delle nostre autrici: che siano scienziate, donne scienziato o donne nella scienza, decidetelo voi.

Foto di Pexels da Pixabay