Nel settembre del 1986, a pochi mesi dalla morte di Primo Levi, la giornalista Milvia Spadi lo intervistò per una trasmissione dell’emittente tedesca WDR, in occasione della pubblicazione del libro “I sommersi e i salvati” per l’editore Hanser. Questa lunga chiacchierata venne poi riportata nel libro “Le parole di un uomo. Incontro con Primo Levi”.
L’intervista termina con due domande ancora oggi attuali: come si può raccontare un’esperienza così profonda? Cosa si deve, o non si deve, raccontare dell’Olocausto alle generazioni future?
Queste le parole di Primo Levi a Milvia Spadi:
«Penso che teoricamente vada raccontato tutto: la mia esperienza con i miei due figli è stata completamente diversa. Ho due figli che adesso hanno, rispettivamente, 38 anni la ragazza e 29 il ragazzo, sanno benissimo tutto, hanno letto i miei libri, però non mi hanno mai permesso di parlarne. E lo hanno fatto in diversi modi. Ho provato, perché mi sembrava doveroso, quando ognuno di loro aveva una quindicina d’anni, a raccontare, come farebbe un qualunque padre, quello che mi è successo. A distanza di nove anni (perché ci sono nove anni di differenza tra loro, ndr), tutti e due si sono comportati allo stesso modo: sono impalliditi, si sono messi a piangere e sono scappati.
Dopo di allora, io so benissimo che loro leggono i miei libri, perché glieli regalo, ed essi a loro volta li regalano, perché me li fanno firmare e li offrono ai loro amici; però mi vietano di parlarne in casa, me lo vietano con i fatti. Mi rendo conto perfettamente che è “unanständig” (indecoroso, sconveniente, ndr) da parte mia il forzarli su questo argomento.
Mi vogliono, vogliono in me un padre normale, e mi accettano come un padre normale. Proprio di recente dovevo scrivere un testo in inglese per un giornale americano. L’ho fatto, e poi ho chiesto aiuto a mio figlio che l’inglese lo sa meglio di me, e lui mi ha fatto delle correzioni puramente formali, ma sul contenuto non è assolutamente entrato. E questo è normale, è regolare. È chiaro che è diverso sentir raccontare queste cose da un terzo, da un estraneo, da uno che queste cose non le ha vissute, o da uno che porta il numero sul braccio come me. Una cosa la ricordo benissimo: quando mio figlio aveva tre anni, ed era estate, ha visto me con un mio amico, anche lui reduce e avendo notato il numero tatuato in tutti e due, mi ha chiesto: “Perché tu e Nardo siete scritti?” Io gli ho dato una spiegazione assolutamente da tre anni. Gli ho detto: “Siamo stati prigionieri, si usava fare così”, da allora non ha chiesto più niente.
In famiglia è diverso, perché è abbastanza comprensibile che i figli vogliano eliminare, cancellare questo tema, perché disturba. Questa casa, se Lei guarda quell’ala della libreria, è fatta solo di libri sul nazismo e sulla persecuzione degli ebrei e via dicendo: quindi questa casa è satura di persecuzione e i miei figli se ne sono accorti molto prima che noi ce ne rendessimo conto. I bambini sono molto sensibili, quindi hanno eretto precocemente una barriera difensiva. Io li comprendo benissimo, e ho sempre rispettato questa loro posizione, sapendo perfettamente che sono antifascisti, che lo sono sempre stati; sono stati, sia l’uno sia l’altra, leader della contestazione a scuola. È il loro modo, questo…»
Prosegue la Spadi: «È sicuramente molto difficile vivere con la memoria di un evento così grande e il racconto sui suoi figli è più che significativo. Come è possibile far diventare normalità la memoria di un’esperienza così estrema?»
«Ognuno lo fa a suo modo. C’è chi non lo fa affatto: io conosco molte persone disturbate ancora adesso; c’è chi butta tutto nel dimenticatoio, c’è chi è riuscito a porre uno sbarramento e dimenticare tutto, o far come se avesse dimenticato. Per quanto mi riguarda, la mia storia è del tutto anomala, perché fra me e quell’esperienza c’è un certo numero di libri che fungono da memoria artificiale, da surrogato della memoria.
Se io non avessi scritto “Se questo è un uomo” è probabile che avrei dimenticato molte cose. Comunque questo libro ha poi vissuto di vita propria, è stato tradotto in otto lingue, ci sono ritornato sopra infinite volte, per commentarlo per le scuole, per ridurlo per la radio o per il teatro. Quindi ormai sono un “professionista”, sono diventato un “reduce” di mestiere, quasi un mercenario… (ride, ndr).
La mia esperienza di allora è profondamente adulterata da una quantità di ripensamenti avuti dopo, di conversazioni, come quella che sto facendo con Lei. Ho avuto un numero molto alto di interviste e tutto questo si interpone fra l’esperienza genuina e l’oggi. Ho avuto anche soddisfazioni, perché questi libri sono stati tradotti e commentati e recensiti in molti paesi. Ho scritto poi… ho acquisito il vizio di scrivere libri che non c’entravano niente con queste cose. Tutto ciò crea un grosso diaframma; è il mio personale modo di convivere con la memoria: di esorcizzarla, se si vuole, scrivendo. È stato un istinto. Appena ritornato a casa, in questa casa, ho provato un bisogno intenso di raccontare e di scrivere; ciò è stato salutare, perché mi ha tolto dall’incubo. Perché era un incubo».