Il titolo del libro del fisico ed epistemologo Ignazio Licata “Complessità, un’introduzione semplice” esprime un apparente paradosso, e chiarisce che complesso non è l’opposto di semplice e che bisogna distinguere complesso da complicato.
L’idea di complessità, infatti, da un punto di vista cognitivo ed epistemologico, può essere ricondotta, piuttosto, all’impossibilità di ridurre un sistema ad un’unica formula, ed alla necessità di prendere in considerazione descrizioni diverse dello stesso sistema senza poterle ricondurre ad un singolo schema concettuale.
Usando una terminologia accessibile al lettore che non abbia compiuto studi specifici, l’autore sviluppa in tutto il volumetto un parallelo fra le idee che possiamo avere di scienza e le analoghe concezioni di management, con l’obiettivo di mostrare come sia necessario superare alcuni luoghi comuni che rischiano di dare una visione limitata e limitante sia della fisica che della gestione di un’impresa.
Spesso, infatti, si identifica la scienza con il paradigma secondo cui un fenomeno può essere studiato analizzando i suoi componenti più elementari, che obbediscono a leggi capaci di prevedere, in modo deterministicamente preciso o probabilistico, il loro comportamento futuro. Questa visione riduzionistica, che pure ha i suoi meriti, può forse applicarsi in modo efficace all’analisi del mondo microscopico della particelle o a quello macro della cosmologia, nei quali c’è bisogno di grandi semplificazioni, ma non funziona nella “terra di mezzo” dei sistemi biologici, cognitivi e socioeconomici.
Nei fenomeni di questo genere, infatti, non basta studiare cosa accade a livello degli elementi costitutivi per comprendere quel che avviene a livello globale. Ad esempio, la nostra conoscenza del mondo non si può descrivere con un modello lineare nel quale l’oggetto che si trova “fuori” viene percepito tramite un’immagine interiore. La nostra osservazione del mondo implica una selezione delle informazioni, un’interpretazione dei dati, una costruzione dei significati: vedere è un processo molto diverso dall’impressionare un’immagine su una lastra fotografica. Non si può ridurre il fenomeno della visione a fotoni che colpiscono le cellule della retina e a neuroni che processano segnali elettrici, poiché bisogna prendere in considerazione anche la storia dell’individuo, le sue esperienze, la sua prospettiva.
Se cogliamo la complessità del processo in un’ottica ecologica, è necessario considerare la fisiologia dell’occhio insieme al soggetto che osserva e al contesto ambientale. La scienza non tratta i dati sperimentali come quei puntini che bisogna unire nei giochi delle riviste di enigmistica: il tratto è rettilineo e l’ordine già stabilito, così che il disegno che emerge è esattamente quello previsto. I dati sperimentali possono essere messi in relazione fra loro in modi differenti: l’esperimento non determina la teoria, ma la sottodetermina, ed è la stessa teoria a selezionare i dati sperimentali da raccogliere e analizzare.
Emergono, così, più possibilità per descrivere un fenomeno, ed ognuna esprime un punto di vista e presupposti teorici differenti; non esiste una prospettiva che riesca a sintetizzare tutti i punti di vista parziali. Quindi non esiste una teoria del tutto, o, se esiste, “è in genere anche una teoria del quasi nulla, che lascia fuori un sacco di cose interessanti”.
Osservazioni analoghe possono essere avanzate relativamente alle aziende ed alla loro gestione; infatti l’ipotesi che si possano conoscere tutte le caratteristiche di una azienda, che chi la gestisce possieda tutte le informazioni possibili, che il mercato sia un’entità ben definita ed immutabile, è un’astrazione che ricorda molto da vicino i modelli deterministici newtoniani, nei quali ogni sistema può essere ridotto ad un insieme di particelle e di forze ben definite. In realtà le informazioni sono sempre parziali, la razionalità è limitata, il mercato evolve insieme ai soggetti che interagiscono con esso, ed ogni punto di vista non è mai definitivo.
Proprio perché una visione basata sulla complessità ci insegna che la conoscenza del mondo non è una fotografia e che non c’è nessuna formula a cui ridurre le prospettive plurali sul mondo, allora c’è uno spazio per la responsabilità delle scelte, e la gestione delle cose e del sapere “richiede un’arte di governo e strategie cognitive sempre diverse”.
Da qui l’importanza di un’etica, che emerge come elemento determinante e strategico per gestire la complessità in modo efficace e per ricordare quella che è la natura autentica dell’impresa: “tenere alta la tensione tra la necessità obbligata del mondo così com’è e la bellezza gratuita dei mondi desiderabili”.