Brexit in economia

Il battito d’ali della farfalla inglese che causò un uragano in Nicaragua

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Crollo verticale della sterlina e delle Borse di tutto il mondo: lo chiamano pericolo Brexit e questo è lo scenario migliore in caso la Gran Bretagna, oggi al voto referendario, decida di uscire dall’Unione Europea.

Ammesso che vi sia mai entrata, visto che fra tutti gli Stati-membri è l’unico ad aver conservato la propria moneta e una certa elasticità nelle regole di import-export.

Una previsione dai risvolti cupi, in un mercato globale già provato dalla crisi dei mutui americani del 2007-2008 e mai uscito dalla successiva stagnazione per deflazione, che vuol dire: inflazione troppo bassa, denaro prestato a tasso zero, ma anche poca fiducia degli investitori – perché senza inflazione si guadagna troppo poco – e quindi immobilità dell’economia globale.

È un serpente che si morde la coda: anche a lanciare denaro dagli elicotteri – come suggeriva Ben Bernanke a Obama, per uscire dalla crisi nel 2009 – poi ci vuole qualcuno che abbia il coraggio di spenderlo quel denaro.

E il coraggio è proprio quello che manca, nei momenti di crisi: non si spende, si risparmia, e chi già è indebitato, fallisce.

Si vota, in Inghilterra, per scelta politica ma le ripercussioni saranno soltanto economiche. E saranno per tutti. Perché? Che c’entriamo noi con le decisioni della Gran Bretagna?

Come ricorda Benoit Mandelbrot nel suo Nel mondo dei frattali – richiamandosi a una suggestione lanciata da Ray Bradbury in Rumore di tuono dove, con un salto nel tempo di duemila anni, l’uccisione di una farfalla preistorica portava alla catastrofe umana contemporanea – il battito d’ali di una farfalla in Brasile può veramente scatenare un uragano dall’altra parte del mondo.

Si chiama “effetto farfalla”: ogni singola azione modifica il circostante, nel presente e nel futuro, come il sasso che cade nel lago e con onde concentriche smuove tutta l’acqua.

È la fitta rete dell’economia globale, che significa: non c’è evento nel mondo – politico, sociale o culturale – che non abbia ripercussioni economiche mondiali.

È la globalizzazione – l’economia di tutti – che vince sull’economia nazionale. Lo scacchiere delle interdipendenze economiche – se la Cina esporta troppo, qualcun altro esporta meno – delle nuove “guerre” mondiali.

Uno scenario fantascientifico? No, il meccanismo è lo stesso dei frattali: oggetti geometrici la cui struttura si replica, al proprio interno, all’infinito e sempre uguale (Mandelbrot). La matematica dei frattali è alla base di molte teorie economiche.

Per certi versi è come un gioco. Un gioco degli scacchi, dalle infinite varianti, mai prevedibili purtroppo. La teoria dei giochi è un tassello basilare delle scienze economiche, come scrive Robert Aumann, premio Nobel per l’Economia, in I giochi dell’economia e l’economia dei giochi: si fonda sul calcolo delle probabilità ed è quello che pratica ogni bravo broker di Borsa.

Che succede se sposto questo tassello? Cosa devo aspettarmi che accada, se passa questa legge? Che esito avrà il referendum inglese?

È un “effetto domino”, eventi che si succedono a catena, in un rapido avvicendarsi verso – in genere – il peggio. Perché questa è una caratteristica dell’economia: il meglio si costruisce con lentezza e con fatica; il peggio accade sempre in fretta. È un precipitare di eventi, dettato dal panico di perdere tutto.

Per questo come scrive Noam Chomsky, in Linguaggio e politica, ogni atto politico è prima di tutto un atto di arbitrio, privo di consenso democratico: perché in Inghilterra votano per propria scelta politica, ma senza il consenso di tutti coloro che di quel voto pagheranno le conseguenze, ossia il resto del mondo.

Si parla sempre più spesso dell’asservimento della scelta politica alle ragioni economiche. Se ne parla come di un danno irreversibile, di una schiavitù sancita da quella corrente ideologico-economica oggi molto attuale che è il “neoliberismo” (che significa: libero Mercato, zero Stato) – e per conoscerne a fondo natura e ragion d’essere sarebbe utile leggersi Liberismo, libertà, democrazia di Pascal Salin – ma se ne parla a sproposito.

Il problema non è l’asservimento della politica all’economia, ma il contrario. Che non vi sia più un’autonomia di rischio e investimento, che l’economia sia diventata sempre di più l’ancella “isterica” degli umori del mercato, che il capitalista sia sempre più speculatore (e come tale può fare solo previsioni di catastrofi, perché sono quelle che fanno guadagnare meglio e più in fretta) e sempre meno ideatore o innovatore, questi sono i veri flagelli del mercato globale.

La triste verità – John Dunn insegna, in Pensare la politica – è che collettivismo e competitività economica sono avverse fazioni della moderna democrazia: o si insegue il bene comune, il benessere collettivo, o si mantiene in vita il sogno della realizzazione personale, del self-made-man. E sono ambedue scelte essenzialmente morali, prima ancora che politiche o economiche.

L’Inghilterra oggi voterà per queste due avverse fazioni: rispettare il sentimento collettivo di disuguaglianza e impoverimento – innegabile da un punto di vista di realtà – o gridare a gran voce che ci sono sempre possibilità per tutti, basta volerle, basta guadagnarsele.

Il resto del mondo dovrebbe interrogarsi invece su un altro tipo di scelta: quale economia per il futuro? Economia di pace, economia di guerra? Come cita il titolo del libro dell’economista americano Clive Granger.

Perché è innegabile che con la guerra, le armi, la competizione, la speculazione si fanno più soldi – molti più soldi – ma il mercato, questa enorme rete da pesca dove tutti gettano l’amo sperando di portare a casa qualcosa, è tondo (come il pianeta Terra, appunto) e prima o poi si finisce a pescare e a speculare nel proprio stesso mare. Prima o poi succede che la guerra te la porti in casa, che divori te stesso.

Non si tratta di stigmatizzare l’esistente, di scagliarsi contro l’economia globale o globalizzazione che dir si voglia. Né di gridare al grande complotto del capitalismo. Si tratta di analizzare e capire l’attuale “ordine” mondiale, individuarne gli aspetti costruttivi e quelli distruttivi; potenziare i primi e limitare i secondi; ripensare equilibri e statu quo. O, come scrive, Dominick Salvatore in Verso un’economia globale:

“Piuttosto che tentare di distruggerlo, perché a detta di molti fonte di disuguaglianza economica, dovremmo prima cercare di farlo funzionare al meglio, per poi operare qualsiasi ridistribuzione”.

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