Dietro le scoperte di Fermi e dei «ragazzi di via Panisperna» anche qualcosa di banale: Cesarina, la donna delle pulizie
La storia ufficiale del Novecento mostra le sue crepe e ha bisogno di revisioni. Ma non solo nei capitoli di politica e cultura. Anche in quello sulla scienza, la cui rivoluzione ha avuto enormi conseguenze tecnologiche, militari e politiche. Vi troneggiano Albert Einstein ed Enrico Fermi, pacifici e illuminati studiosi diventati «sommovitori di mondi».
Ma non si dovrebbe dimenticare la signora Cesarina Marani. In un libro di prossima uscita, due fisici, Fabio Cardone dell’Università dell’Aquila e Roberto Mignani dell’Università di Roma Tre, affermano infatti con provocatoria ironia che «il bambinello, la bomba atomica di Hiroshima, era in un certo senso “figlio” della sora Cesarina».
Chi era costei? Era, negli anni Trenta, la donna delle pulizie nel Regio istituto fisico dell’Università di Roma, in via Panisperna.
Vi lavoravano, diretti dal grande Fermi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo: una leggendaria équipe immortalata da libri e film come «I ragazzi di via Panisperna». Che cosa c’entra dunque la signora Cesarina con Hiroshima e con tutto quello che ne è derivato? Stando alle ricostruzioni ufficiali, nulla. Ma le ricostruzioni ufficiali dicono la verità? Dicono tutta la verità? E questa piccola storia può gettare qualche luce sul misterioso «caso Majorana» che affascinava anche Leonardo Sciascia?
Cardone e Mignani, con un’affabulazione scintillante, una felice sorpresa trattandosi di scienziati, nel loro libro (titolo: “Enrico Fermi e i secchi della sora Cesarina”, Di Renzo Editore) ricordano la svolta fondamentale del XX secolo che avvenne proprio grazie alla scuola romana di fisica.
Le date principali:
- il 26 ottobre 1935 viene depositato, dai ragazzi di via Panisperna, il memorabile brevetto sul «processo per la produzione di sostanze radioattive».
- Nel 1938 Fermi riceve il premio Nobel per la Fisica ed emigra negli Stati Uniti, dove di lì a poco partecipa agli esperimenti per lo sfruttamento dell’energia nucleare a fini bellici.
- Il 2 dicembre 1942 ottiene, nei sotterranei di uno stadio da baseball di Chicago, la prima reazione nucleare controllata.
- Il 16 luglio 1945 ha luogo la prima esplosione atomica sperimentale nel deserto di Alamogordo.
- Il 6 agosto, è la volta di Hiroshima.
Così, «una delle scoperte più importanti del Novecento, verificatasi per caso in un Paese povero e arretrato come l’Italia» nota Eliano Pessa nella prefazione «recò invece enormi vantaggi a un paese come gli Usa che era già allora il più ricco della Terra e che, grazie a ciò, divenne la superpotenza mondiale che tutti conosciamo».
Tutto dunque comincia a Roma, al n. 90 di via Panisperna. Come arrivarono, Fermi e i suoi collaboratori, a quei risultati? Come fecero a scoprire che era il rallentamento dei neutroni (provocato dall’acqua) «la chiave che apriva all’umanità il vaso di Pandora dell’energia nucleare»? La ricostruzione ufficiale dice che l’esperimento decisivo fu quello compiuto in un giorno dell’autunno 1934 nella famosa vasca dei pesci rossi nel giardino dell’istituto. Ma come e perché si arrivò a quello strano esperimento?
Cardone e Mignani sono andati a confrontare i resoconti e le memorie lasciate, a distanza di anni, dai protagonisti di quella vicenda. Con somma sorpresa si sono accorti che ciascuno raccontava una storia diversa. E nessuno spiegava in modo convincente l’irrituale ricorso a quella fontana. Finché al Museo della fisica della «Sapienza» di Roma i due si sono imbattuti nell’anziano custode: il cavaliere del lavoro Mario Berardo, allora ottantaduenne, aveva cominciato a lavorare da ragazzino, a 14 anni, proprio come tecnico nell’istituto di Fermi. E quando fu rivolta a lui la domanda sulla vasca, il giallo si sciolse:
«Ah, ma la vasca non c’entra nulla, fu tutta colpa dei secchi della sora Cesarina».
In quelle fatidiche settimane del 1934 l’équipe di Fermi si era ingolfata. Non si riusciva a capire perché la stessa sostanza irradiata con neutroni desse a volte, a parità di condizioni, risultati di radioattività eccezionale. Finché una mattina di ottobre la signora Cesarina venne rimproverata dal cavalier Zanchi, l’economo, perché aveva bagnato un corridoio.
Le ordinò di servirsi solo del lavandino a pianterreno e senza usare l’ascensore, ma la sora Cesarina era ormai avanti con gli anni e non ce la faceva a portare tutta quell’acqua per le scale. Così escogitò una soluzione pratica: riempiva i secchi in uno dei laboratori e li nascondeva sotto un tavolo dotato di tendine, che occultavano i secchi. Era il tavolo dove gli esperimenti davano quei risultati inspiegabili. Fu così chiaro che era quell’acqua a interferire e per questo Fermi volle rifare l’esperimento, prima in uno dei suddetti secchi e poi in un più grosso contenitore: appunto la vasca dei pesci rossi:
«Erano le 15 del 22 ottobre 1934. La via per l’energia nucleare era aperta».
I secchi della signora Cesarina, dunque, «svolsero una duplice funzione» sottolineano Cardone e Mignani: permisero di scoprire che, contrariamente a quanto si pensava, erano solo i neutroni rallentati a indurre radioattività in modo sensibile; e «permisero di individuare immediatamente qual era la sostanza più adatta a frenare i neutroni».
Insomma, «il grimaldello capace di forzare lo scrigno nucleare» fu fornito dal caso incarnato per l’occasione da una donna delle pulizie (nella storia della scienza vi sono altri celebri precedenti: per esempio la mela di Isaac Newton).
Cardone e Mignani hanno pure scoperto che questa storia era già stata raccontata. Uno dei protagonisti, Oscar D’Agostino, il chimico di via Panisperna, l’aveva riferita nel 1958 al “Candido” di Guareschi. Ma incredibilmente, forse perché era giornale non politically correct, questa testimonianza era stata «dimenticata».
Tutte le storie ufficiali sulle scoperte di via Panisperna «hanno rimosso i secchi della sora Cesarina» scrivono Cardone e Mignani. Volendo aprire il dibattito sul «metodo scientifico» (è il vero intendimento del libro) i due sottolineano quell’eliminazione «dell’elemento “caso” come se esso non avesse avuto, o meglio non dovesse avere, alcuna influenza sul progresso scientifico. E l’aveva avuta, eccome! Allo stesso modo era stato rimosso l’elemento “pregiudizio” che aveva impedito ai “ragazzi” di comprendere che avevano realizzato la fissione nucleare». Lo capirono, dice la storia, solo dopo il 1938, quando Fermi era emigrato negli Usa.
Segrè scriverà in seguito: «La ragione della nostra cecità non è chiara nemmeno oggi». E Sciascia commenterà che fu forse considerata «come provvidenziale, se quella loro cecità impedì a Hitler e Mussolini di avere l’atomica». Ma davvero nessuno si era reso conto?
Proprio le dimenticate memorie di D’Agostino riferiscono che la scoperta di Fermi attirò l’attenzione di Majorana, che da un po’ di tempo si era isolato e non frequentava l’istituto. Il matematico Umberto Bartocci in un suo libro su Majorana riferisce un particolare dimenticato, raccontato da D’Agostino (sempre sul “Candido”):
arrivato un pomeriggio all’Istituto, aveva trovato Majorana che discuteva con Fermi sull’interpretazione teorica delle sue scoperte e, nella sorpresa di tutti, i due urlavano, davanti a grosse lavagne piene di numeri volavano parole grosse.
La disputa si protrasse per ore. «Fu quella» scrive D’Agostino «l’ultima volta che vidi Majorana». La sua misteriosa sparizione, secondo Cardone e Mignani, «potrebbe testimoniare di una sua possibile lettura drammatica, addirittura profetica (come ipotizzato da Sciascia) degli esperimenti di via Panisperna». Quella scomparsa, secondo qualche ipotesi, potrebbe essere perfino un grande intrigo internazionale sullo sfondo dell’era atomica. Un altro segno che ci sono ancora molte cose da raccontare.
Panorama – 23 Giugno 2000 – Antonio Socci