Buchi Neri

Buchi neri, comunicazione energia

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La fisica dei buchi neri cominciò a svilupparsi impetuosamente negli anni ’60, quando una particolare confluenza di questioni fisiche, di possibilità osservative e di metodi matematici diedero un nuovo impulso agli studi sulla teoria della gravitazione di Einstein.

Già nel 1939 Oppenheimer e Snyder mostrarono come una stella fredda massiva, esaurito il suo combustibile nucleare, tenderà a collassare irreversibilmente fino ad un punto singolare, creando intorno a sé una regione, detta “orizzonte degli eventi”, dalla quale è impossibile che qualunque informazione possa uscire, compresa la luce; da cui il nome pittoresco di “buchi neri” coniato da J.A.Wheeler.

L’analisi di Oppenheimer e Snyder era rigorosamente basata sulle equazioni della RG, che descrive la gravitazione come curvatura dello spazio-tempo. Questo dal punto di vista fisico significa che il collasso gravitazionale di un oggetto di grande massa porta alla lacerazione dello stesso tessuto spaziotemporale e, poiché ogni legge fisica è scritta in un opportuno sistema di riferimento di spazio e di tempo, questa situazione indica, come sempre accade quando all’interno di una teoria fisica compaiono delle singolarità, una crisi profonda nelle basi di una teoria fisica considerata fino ad allora un modello di coerenza.

L’attività scientifica di J.Bekenstein comincia in quegli anni, all’interno del gruppo di J.A.Wheeler a Princeton, uno dei pochi al mondo dove queste situazioni estreme previste dalla RG vennero affrontate con audacia intellettuale e piena consapevolezza che i risultati avrebbero modificato radicalmente il nostro modo di leggere la teoria.

Fu un periodo di grande eccitazione, che si trasmise lentamente da questi piccoli gruppi – ricordiamo anche J. Zeldovich, V. Ginzburg e I. Novikov in Russia, S. Hawking e R. Penrose in Inghilterra – all’intera comunità dei fisici, all’inizio piuttosto restia a riprendere le complicazioni della RG in un periodo in cui l’attenzione generale era polarizzata dalla fisica delle particelle e dunque dalla teoria quantistica dei campi.

Per capire bene il clima di quei tempi bisogna considerare che queste due grandi teorie portanti dell’intera fisica moderna sono strutturalmente molto diverse tra loro. La RG è una teoria classica che descrive il mondo su scala macroscopica, dove i comportamenti ondulatori e particellari sono ben distinti, mentre nella teoria quantistica abbiamo a che fare con la struttura fine del mondo degli oggetti su scala atomica, nucleare e subnucleare che esibiscono un comportamento ondulatorio e corpuscolare retto dal principio di indeterminazione di Heisenberg.

Le grandi novità riguardavano allora lo studio delle interazioni nucleari forti con acceleratori di particelle sempre più potenti ed avevano lasciato poco spazio effettivo alla RG, considerata una teoria interessante solo per i cosmologi ed i matematici. E praticamente nessuno, al di fuori dei gruppi citati, era disposto a lavorare sulle stranezze interne di una teoria così lontana da ogni possibilità di nuove verifiche sperimentali.

La prima lezione che un giovane può ricavare da queste intense pagine di J. Bekenstein è che un problema per diventare fecondo deve prima essere compreso profondamente. E non è detto che la comprensione generale dominante di una questione nella comunità in un certo periodo sia quella giusta. A volte servono buone dosi di intuito e determinazione per vedere le possibilità di un problema e trasformarlo così in un nuovo scenario teorico.

Chi lo ha conosciuto sa che Jakob Bekenstein non è stato per sua natura un rivoluzionario. Non era propenso ai facili entusiasmi ed era abituato a motivare ogni sua posizione con un duro lavoro fisico-matematico condotto con pazienza certosina. La sua capacità di concentrazione su lunghi periodi e la preziosa dote di non lasciarsi scoraggiare facilmente, anche davanti a risultati apparentemente senza via d’uscita, è sicuramente stato il tratto tipico del suo modo di fare fisica.

Queste doti gli hanno permesso di vedere il problema della grande crisi da una prospettiva diversa, cercando connessioni con altre aree della fisica, nella giusta convinzione che per muoversi su un terreno così infido fosse necessario ricorrere agli strumenti concettuali più generali e solidi che si potessero trovare.

Pur trovandosi nel classico posto giusto al momento giusto, la peculiarità dell’approccio di Bekenstein è stata quella di non aver visto l’intera questione dei buchi neri soltanto come un problema interno della RG, ma piuttosto come la richiesta di una maggiore coerenza tra domini diversi della fisica.

Com’è noto, la termodinamica è quella parte della fisica che studia il comportamento generale dell’energia. Date le sue caratteristiche fondamentali, largamente indipendenti dalle caratteristiche del sistema considerato, è facile comprendere come ragionamenti e considerazioni di carattere termodinamico siano state spesso di importanza cruciale nel superare molte difficoltà; è il caso, ad esempio, dei problemi legati ai processi d’interazione tra materia e radiazione che sono alle origini della fisica quantistica.

La seconda legge della termodinamica viene spesso espressa dicendo che il disordine nei processi fisici tende sempre ad aumentare e questo disordine è misurato da una grandezza chiamata entropia. Ma i concetti di ordine e disordine in fisica acquistano un significato preciso soltanto in relazione al concetto più generale di correlazione tra livelli energetici.

Maggiore è la correlazione, maggiore è l’ordine del sistema, mentre ad una più ampia distribuzione di livelli corrisponderà un più alto valore dell’entropia. Consideriamo allora di gettare all’interno dell’orizzonte degli eventi della materia con un alto grado di entropia.

Poiché ogni informazione va irrimediabilmente perduta all’interno di un buco nero per via di quello che Wheeler ha denominato “teorema dell’assenza di capelli del buco nero“, dovremo concludere che nell’universo accessibile è stata violata la seconda legge della termodinamica a causa dei buchi neri.

In questo modo si introduce una distinzione artificiosa tra la fisica dentro i buchi neri e quella del resto dell’universo. Era già stato osservato però che in questo tipo di processi l’area del buco nero aumenta sempre.

L’evidente analogia con il comportamento di una grandezza come l’entropia fu l’indizio sottile del complesso lavoro di Bekenstein, nel 1972, sulla possibilità di costruire una termodinamica dei buchi neri in grado di spiegarne il comportamento energetico senza introdurre alcuna ipotesi ad hoc, ma ricollegandosi direttamente ai principi fondamentali della fisica.

Il risultato più noto è la famosa formula generalizzata dell’entropia, che collega gli aspetti tradizionali di questa grandezza con la crescita dell’area dei buchi neri. Ed è proprio su questo punto che le esposizioni correnti sono in genere piuttosto superficiali, poiché non mettono bene in risalto quanto questa semplice formula permette di fare!

Letta nel suo significato fisico autentico, la legge che connette area ed entropia ci dice che quella zona particolare che chiamiamo “buco nero” funziona come una sorta di meccanismo di stoccaggio per l’energia, che una volta oltrepassato l’orizzonte degli eventi viene immagazzinata in modo assai peculiare, in grado di consentire la manifestazione di effetti di super-radianza.

Questi effetti furono considerati per la prima volta da R.Dicke, un brillante fisico sperimentale noto anche per aver proposto una teoria metrica della gravitazione diversa da quella di Einstein, e ripresi recentemente dal compianto G. Preparata. La super-radianza è descritta da un termine non-lineare nelle equazioni che permette ad un sistema quantistico di entrare in uno stato di altissima correlazione detto “dominio di coerenza“, di rinforzarsi tramite questo meccanismo e di rilanciare ogni perturbazione energetica esterna rafforzandola e compattandola.

L’apparizione di un comportamento simile nell’ambito classico dei buchi neri apparve piuttosto sorprendente ed è qui che si innesca la polemica con un gigante della fisica dei nostri tempi, Stephen Hawking. Intorno al 1975 il nome di Hawking divenne universalmente famoso per la radiazione di Hawking, una particolare emissione di particelle che si verifica sull’orizzonte degli eventi di un buco nero e che è inversamente proporzionale all’area del buco.

Nel caso di mini-buchi neri, che possono essersi formati durante le prime caotiche fasi del nostro universo, tale radiazione è massima. Questo effetto è basato su considerazioni quantistiche che ammettono per una particella ad energia positiva la probabilità di uscire dal buco nero per effetto tunnel.

Il risultato è giustamente famoso perché getta un solido ponte tra la relatività generale e la teoria quantistica e pone le basi per una futura teoria quantistica della gravitazione. Dovranno passare però diversi anni di arroventate polemiche perché si riconoscesse universalmente che il risultato di Bekenstein del 1972 era assai più generale e prevedeva come caso particolare la radiazione di Hawking!

A volte un risultato particolarmente raffinato può essere difficile da comprendere in tutte le sue implicazioni e questo fu sicuramente il caso della termodinamica dei buchi neri di Bekenstein. A questo bisogna aggiungere che Hawking è un uomo dai giudizi decisi e taglienti e le sue valutazioni sulla termodinamica di Bekenstein non furono certo benevole agli inizi.

Da più parti si riteneva che questo collegamento tra entropia ed area dei buchi non fosse altro che un’utile analogia e che non ci fosse alcuna ragione fisica per indagarla più a fondo.

L’intero lavoro di Bekenstein, invece, mostra come l’attività super-radiante dei buchi possa essere descritta in modo piuttosto semplice, assumendo che i buchi neri abbiano una capacità termica negativa, legata alla possibilità di stati ad energia negativa nella teoria quantistica dei campi.

Più in generale, il risultato di Bekenstein fornisce una spiegazione molto diretta del perché la radiazione di Hawking sia naturalmente meno elevata nei buchi neri ordinari, quelli cioè che si formano a partire dal collasso gravitazionale di stelle massive.

In questo caso il dominio di coerenza è meno forte che in un minibuco perché si estende su un’area piuttosto vasta e dunque l’attività radiante ha diversa intensità e diverso spettro. Mentre nell’approccio semi-classico di Hawking il risultato appariva come una combinazione piuttosto fragile, sebbene ingegnosa, di RG ed MQ, il lavoro di Bekenstein descrive la risposta super-radiante dei buchi neri in modo del tutto generale, utilizzando i principi della termodinamica e la teoria quantistica dei campi e fornendo le caratteristiche ondulatorie di ogni emissione direttamente in relazione alla massa ed alle caratteristiche della perturbazione esterna.

Non dobbiamo pensare tanto ad una singolarità imprendibile che deforma l’attività del vuoto quantistico intorno, ma piuttosto ad una peculiare caratteristica delle modalità organizzative dello stesso vuoto in condizioni particolari. Si tratta di risultati fondamentali per il lavoro che ancora si sta tentando per mettere a punto una teoria quantistica della gravità e che lo stesso Bekenstein ed i suoi allievi, oggi presso la Hebrew University di Gerusalemme, stanno sviluppando. Recentemente C. Vafa e A. Strominger (1996) hanno descritto il dominio di coerenza di un buco nero estremale attraverso la teoria delle super-corde, effettuando l’analisi dei microstati correlati.

Una linea particolarmente interessante è legata al limite di Bekenstein, che emerge naturalmente dalla termodinamica dei buchi e che ha valore assolutamente generale, non essendo direttamente connesso, nella sua formulazione matematica, a situazioni gravitazionali. Se consideriamo l’entropia S come una misura del disordine di un sistema, l’informazione I, secondo la celebre formula di Shannon, I = – S, può essere vista come un indicatore dell’ordine di un sistema fisico.

L’approccio termodinamico permette di fissare un certo contenuto massimo di informazione per un sistema fisico di una data massa o, alternativamente, un limite all’entropia. Sappiamo già che queste grandezze sono legate al numero dei micro-stati e dunque il limite di Bekenstein permette di conoscere il numero degli stati possibili di un sistema partendo soltanto dalla sua massa.

Se la quantità di materia in un sistema è finita, come nel caso degli attuali modelli cosmologici, allora esiste un limite superiore al numero degli stati possibili. Secondo una valutazione basata sul modello chiuso dell’universo di Fridmann, questo numero è: 1010 elevato a 123!

Si tratta di un numero enorme, ma pur sempre finito. Una delle possibilità che suggerisce è che la stessa struttura dello spazio-tempo possa essere discreta, idea che molti teorici, tra i quali l’autore di queste righe, stanno attivamente indagando e che si pone tra le frontiere estreme della fisica dei nostri giorni.

Questo orizzonte, come nota bene lo stesso Bekenstein nell’ultima parte del libro, è dominato dal concetto di informazione, che dobbiamo cominciare a considerare una grandezza fondamentale al pari dell’energia e che forse ci permetterà di mettere a punto una teoria generale dell’organizzazione e dell’informazione dinamica che crea la grande varietà di strutture che osserviamo nell’universo ad ogni scala.

La prospettiva è affascinante: poter descrivere l’enorme attività dell’universo come una complessa rete di informazioni che continuamente passa da un livello macroscopico ad un livello microscopico, in accordo al secondo principio, e viceversa, secondo vari schemi organizzativi legati alla struttura fine dello spazio tempo.

Realizzare questa nuova fisica dell’informazione richiederà un ulteriore allargamento dei nostri quadri concettuali e lo sviluppo di nuovi metodi matematici. E naturalmente una buona dose di pazienza e perseveranza, doti che accompagnano tutta la storia che qui ci viene raccontata in modo delizioso e chiarissimo da un protagonista discreto della fisica moderna.

Un libro denso e chiarissimo, nello spirito “socratico” della collana “I Dialoghi” della Di Renzo Editore. Ogni libro è il frutto della proposta fatta ad uno studioso di raccontarsi in modo diretto.

Il risultato con Bekenstein è stato superiore ad ogni aspettativa: riesce a dire in poche pagine quello che troppi divulgatori rendono indigeribile e confuso. Indispensabile per chi vuol capire le idee alla base di una futura descrizione dell’universo come rete di informazioni.

Fedele al suo carattere, nel suo ultimo libro Hawking si “dimentica” per l’ennesima volta di citare Bekenstein!